giovedì 5 gennaio 2017

Francesco Bellusci :: Di quale corpo ci parla Foucault? @Doppio Zero, 04.01.1917


Di quale corpo ci parla Foucault?

Francesco Bellusci

“Posso andarmene in capo al mondo, nascondermi sotto le coperte la mattina, farmi il più piccolo possibile, posso pure liquefarmi al sole su una spiaggia, lui sarà sempre là dove sono io”. Chi è questo compagno assiduo che anticipa e mette sotto scacco ogni mio tentativo di separarmene? Chi o cos’è questa presenza con cui sono condannato a condividere sempre il mio spazio, le mie destinazioni, i miei soggiorni, persino i miei nascondigli? Chi o cosa non m’impedisce di cambiare posto, di andare altrove, eppure mi rende impossibile prenderne congedo? La risposta che Michel Foucault dà in una delle due conferenze radiofoniche sugli “spazi altri”, trasmesse nel dicembre 1966 (Le corps utopique – Les hétérotopiesÉditions Lignes, trad. it. Utopie. Eterotopie, Cronopio 2004 ) e poi riprese in un intervento presso il Cercle d’études architecturales nel marzo 1967, è semplice, facilmente intuibile, ma è anche l’ingresso nella prima di tante piccole e sorprendenti stanze di un testo tra i più belli, nonché tra i più trascurati, di un autore che pure annovera, come pochi, una bibliografia smisurata su quasi ogni pagina della sua variegatissima produzione. La risposta è: il “mio” corpo.  Di quale corpo ci sta parlando Foucault?

Non è il corpo segregato del folle o il corpo medicalizzato del malato, di cui ha parlato nei libri precedenti. Non è nemmeno il corpo investito dai dispositivi del potere disciplinare o del biopotere, di cui parlerà in seguito: il corpo sorvegliato, punito, addestrato, curato, sessuato. Non sono, cioè, i segni del potere sul corpo, né il rapporto tra il potere e il corpo, ma il rapporto tra l’io e il corpo, il “suo” corpo, che Foucault prende in esame. E lo fa, appunto, parlando in prima persona, con una mossa che spiazza sicuramente quanti, dopo la pubblicazione de Le parole e le cose avvenuta lo stesso anno, lo considerano già uno dei quattro moschettieri dello strutturalismo, insieme con Lévi-Strauss, Lacan e Althusser. Mossa singolare che, forse, è all’origine del cono d’ombra sotto cui il testo cadrà, per effetto della sua, almeno di primo acchito, inspiegabile e improvvisa biforcazione rispetto ad un percorso che, fino a quel momento, ha posto l’accento sul soggetto come l’effetto e l’“oggettivazione” di strutture (epistemiche, discorsive, istituzionali) e non come la sorgente originaria delle sue esperienze e del senso. In verità, come sempre accade in Foucault, si tratta di oscillazioni che sono il sintomo di direzioni più profonde della sua ricerca, più squisitamente filosofiche, solo episodicamente esplicitate da Foucault e, sovente, più nelle interviste che nei suoi saggi. (...)