lunedì 27 agosto 2012
venerdì 24 agosto 2012
International Legal Theory: Symposium on Foucault
Leiden Journal of International Law, Volume 25, Issue 03, September 2012
On the Uses of Foucault for International Law
TANJA AALBERTS and BEN GOLDER
pp 603-608
TANJA AALBERTS and BEN GOLDER
pp 603-608
In Praise of Description
ANNE ORFORD
pp 609-625
ANNE ORFORD
pp 609-625
On Foucault and Wolff or from Law to Political Economy
MATT CRAVEN
pp 627-645
MATT CRAVEN
pp 627-645
‘The Life of Individuals as well as of Nations’: International Law and the League of Nations’ Anti-Trafficking Governmentalities
STEPHEN LEGG
pp 647-664
STEPHEN LEGG
pp 647-664
Targeted Killing and Its Law: On a Mutually Constitutive Relationship
SUSANNE KRASMANN
pp 665-682
From: http://foucaultnews.com/
SUSANNE KRASMANN
pp 665-682
From: http://foucaultnews.com/
mercoledì 22 agosto 2012
Marco Ambra intervista Sandro Chignola: Scuola e istruzione beni comuni? La scuola oltre il limite, ovvero insegnare fuori dal neoliberismo @ Sinistrainrete, 16 giugno 2012
Scuola e istruzione beni comuni?
La scuola oltre il limite, ovvero insegnare fuori dal neoliberismo
Marco Ambra intervista Sandro Chignola
Sandro Chignola, filosofo veronese, studioso del pensiero di Michel Foucault e curatore di Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979) (ombre corte, Verona 2006, pp. 154, 13 euro) ci aiuta a dissipare il rumore mediatico che avvolge in questi giorni la proposta di legge Profumo, attraverso un’analisi serrata del ruolo della scuola pubblica nella società italiana contemporanea e della funzione svolta dall’ideologia del merito nei progetti nei progetti di riorganizzazione dell’ultimo ventennio.
Marco Ambra: Partiamo proprio dai processi di riorganizzazione della scuola in corso dagli anni ’90. Lei li ha descritti nei termini di una ristrutturazione secondo l’ideologia del new public management: la graduale privatizzazione della scuola pubblica, l’implementazione di una tecnologia didattica delle competenze, il coinvolgimento di tutti gli share holders (genitori, studenti, funzionari pubblici, dirigenti) nella valutazione dell’attività didattica, anche attraverso strumenti di misurazione statistico-quantitativa (come le prove INVALSI). In che modo questi punti-guida dell’azione riorganizzatrice della scuola pubblica creano uno spazio nel quale può inserirsi quello che Foucault, nella Nascita della biopolitica, rileva come uno dei dispositivi più efficaci del neoliberismo: l’idea di un individuo imprenditore di sé, ontologicamente primo rispetto alla società nella quale agisce? In che senso questa riorganizzazione è sostenuta da un’episteme pedagogica espressione della didattica delle competenze?
Sandro Chignola: Il fatto che io mi riferisca a Sicurezza, territorio e popolazione e alla Nascita della biopolitica per decostruire gli interventi di riforma che si sono abbattuti sulla scuola pubblica a partire dagli anni ’90 è qualcosa che in qualche modo Foucault stesso auspicava quando ribadisce, nelle interviste, di pensare alla propria opera come ad una cassetta degli attrezzi. L’opera foucaultiana non è una disciplina o un pensiero chiuso nella propria coerenza, quanto piuttosto una «freccia scagliata al cuore del presente» (Habermas), un repertorio di argomenti, mosse, analisi che potevano e possono essere proseguite. C’è una serie di conferenze di Foucault attorno alla metà degli anni ’70 in cui dice di avere pensato a tutti i suoi libri come a gallerie di miniere che dovevano crollare, come fuochi d’artificio o addirittura molotov: qualcosa che si consuma nel momento in cui l’analisi produce il proprio effetto. Ora, i due corsi che ho citato all’inizio sono straordinari per le cose che metti a tema nella domanda. Soprattutto per quello che la Nascita della biopolitica dice rispetto alla relazione tra governamentalità e neoliberismo. Quando Foucault comincia ad applicare il lessico della governamentalità ha di fronte un duplice problema. In primo luogo quello di iniziare a pensare il soggetto come soggettivazione, come processo, mentre invece per un lungo periodo lo aveva pensato come oggettivato dalle pratiche di assoggettamento. Questo è straordinariamente rilevante per capire come mai – e questo mi sembra il secondo aspetto problematico – le tecnologie di governo neoliberali cerchino di disciplinare un soggetto in movimento che deve in qualche modo aggiogarsi volontariamente, riproducendo una sorta di servitù volontaria. In altre parole, la governamentalità neoliberale si rivolge ad un soggetto che viene disciplinato nella propria autonomia, dentro i suoi processi di formazione, impattando la sua stessa voglia di essere governato. È esattamente attraverso la realizzazione di questo grande scambio che l’autonomia del soggetto viene limitata, viene resa funzionale all’applicazione della strategia governamentale. Dentro questo passaggio, che io reputo decisivo, si sviluppa la riflessione dell’ultimo Foucault: quella tesa all’analisi di processi di soggettivazione e forme di vita che, in qualche modo, pur nella relazione con il governo tendono a mantenere e riprodurre spazi di libertà vera. Nella Nascita della biopolitica Foucault, laddove parla della economizzazione del potere, rileva come l’ideologia neoliberista tenda a valorizzare queste figure di imprenditorialità autonoma, in particolare dentro i processi formativi (ma si può anche fare l’esempio dei soggetti delle migrazioni) e che sono particolarmente centrate dal punto di vista dell’analitica. Infatti, se inizialmente i processi disciplinari tendono a formare il soggetto nella misura in cui lo bloccano e lo fissano (tutta l’analitica dell’individuazione in Sorvegliare e punire e nelle cose scritte nei primi anni ’70), da un certo momento in poi Foucault si rende conto che la territorializzazione dell’individuo, la spillatura che la disciplina produce nel momento in cui un soggetto viene creato dentro una biografia, deve essere ecceduta da procedure che invece non lo fissino in una casella; e questa è la grande intuizione delle procedure neoliberali. A lezione faccio sempre l’esempio di come io, quando facevo le elementari, in una scuola ancora molto disciplinare, avevo un posto fisso all’interno della classe: il primo banco, perché ero il primo della classe e il figlio del medico del paese, quello che “meritava” una formazione più specifica. Ora, tutte le strategie disciplinari che entrano in crisi con il neoliberismo hanno questa presunzione: gerarchizzare vuol dire fissare, riprodurre una società rigida che in qualche modo corrisponde – non lo dice Foucault, lo dico io che sono un vecchio operaista – agli schemi della grande fabbrica sociale fordista. Questo ti assicurava, qualora tu fossi stato al primo banco la formazione migliore, se invece fossi stato figlio di un operaio o di un contadino e ti fosse capitato l’ultimo banco, ti sarebbe spettata una formazione consona al tuo destino sociale bloccato. In altre parole, l’ordine gerarchico della scuola disciplinare riproduceva nel tuo destino sociale le condizioni di partenza della tua famiglia. Quando Foucault inizia a fare l’analisi del neoliberismo ha il problema di interpretare come questo tipo di ordine corrispondente alla società fordista, vada in frantumi. Quello che l’interpretazione foucaultiana di questo processo di frantumazione rileva è l’innesto sul soggetto, nei processi formativi e sempre in termini disciplinari (sia chiaro che per Foucault non esiste un’età della disciplina sostituita da un’età della governamentalità, perché tutti i processi procedono attraverso strategie parallele che di volta in volta utilizzano ciò che è più funzionale al potere) della spinta non più alla riproduzione di una ordine sociale gerarchico ma all’autoimprenditorialità. La governamentalità neoliberale risponde alla frantumazione della società fordista dicendo: “siete liberi, incentivo la vostra autonomia, nella forma però della competizione degli uni con gli altri”. In particolare per quanto riguarda la scuola, questa risposta si realizza nell’introduzione di alcuni strumenti disciplinari come il sistema dell’acquisizione dei crediti formativi, liberi e non. Una logica questa assolutamente evidente nelle ultime riforme. Lasciando perdere Foucault, perché come dicevo all’inizio c’è quello che riguarda Foucault e quello che ci spinge fuori di Foucault, in tutti gli interventi di riforma della scuola – dalla Moratti in poi – vediamo che l’ossessione del “portfolio delle competenze” come raccolta individuale di percossi curricolari fatti attraverso l’acquisizione dei crediti (liberi e non), diventi uno strumento disciplinare utilizzato per riprodurre questa idea del soggetto come imprenditore di sé. Quello che mi pare più interessante, e che Foucault ha colto lucidamente, è una sorta di continuità tra la governamentalità neoliberale e un progetto di costruzione della società. Infatti, si è sempre pensato che il liberalismo e il neoliberismo siano legati ad una razionalità di tipo astensivo (lo stato minimo, la libertà di scelta), invece entrambi sostengono un progetto di costruzione della società che parte appunto non tanto dalla società nel suo complesso, ma come dice Foucault in un saggio fondamentale come Omnes et singulatim, da un razionalità generale che si incista e produce attraverso il singolo individuo. Un mattone fondamentale di questo processo di costruzione della società è la riforma della scuola e della università: attraverso il ricatto del debito che mette in competizione tra loro gli individui, attraverso lo smantellamento della scuola pubblica e della sua missione sociale, e più in generale attraverso la messa in movimento dei singoli individui con strumenti disciplinari come il portfolio delle competenze, consultabile dalle prime esperienze scolastiche fino all’ingresso nel mondo del lavoro (immaginato in questi interventi di riorganizzazione come qualcosa di sottratto alle trasformazioni che lo hanno interessato in questi ultimi anni). La scuola diventa allora una delle agenzie formative tra le altre, e in parallelo queste agenzie formative sono pensate in competizione tra di loro. I crediti con cui riempire il portfolio dello studente possono così venire dalla scuola, dal volontariato, dalle scuole private che rilasciano certificati sulle competenze informatiche o linguistiche, dall’associazionismo di ogni genere e specie. Il tutto dentro un percorso formativo in cui i soggetti che vi entrano vengono disciplinati attraverso un’idea della concorrenza, dell’utilità, dell’autoimprenditorialità da incentivarsi, visto che nel mondo del lavoro si troveranno a competere con altri in un contesto di risorse sempre più scarse.
Marco Ambra: In questa prospettiva quale funzione assolve la crescente rilevanza data alla gerarchizzazione dei saperi insegnati a scuola, nel senso di una contrapposizione sempre più marcata tra “saperi utili” propedeutici alla formazione professionale dello studente e la “cultura umanistica”, come orpello retorico privo di scopo produttivo?
Sandro Chignola: Io credo che la gerarchizzazione dei saperi sia funzionale ma allo stesso tempo disfunzionale. Come dire: per gli effetti che rischia di produrre, la gerarchizzazione dei saperi è l’aspetto più arretrato dell’immaginazione di un’ingegneria sociale (quella fordista) che già è arretrata di per sé. Cioè è soltanto all’interno del sistema di produzione fordista che si può immaginare di formare gli individui per un mercato del lavoro che li assorbirà secondo una corrispondenza immediata tra il posto di lavoro e la formazione ricevuta. No, non è mai stato così, nemmeno in una società più gerarchica di questa. Ad esempio, la riforma Gentile permetteva soltanto a chi avesse proseguito gli studi al Liceo classico e fosse stato “meritevole” di entrare all’università, ma al tempo stesso faceva scorrere quelle assi di recupero orizzontale che avrebbero permesso, attraverso la “barriera” del latino, a chi avesse studiato in un Istituto magistrale di fare un anno in più, e al posto di diventare meccanicamente un maestro elementare di accedere alla carriera universitaria. Se da un lato quella idea di scuola corrispondeva ad una società piuttosto rigida e quindi si poteva immaginare una specie di corrispondenza lineare tra il mondo del lavoro e la formazione scolastica, dall’altro si trattava di un modello paradossalmente più aperto di quello di adesso: i miei nonni avevano la seconda elementare, mio padre faceva il medico e io sono un professore universitario. C’era, insomma, l’idea di una mobilità sociale ascendente all’interno di una gerarchia precisa che si basava su qualcosa di diverso dalla posizione sociale di partenza. Insomma c’era un’idea gerarchica e limitata, ma di effettiva “progressione meritocratica”. La gerarchizzazione dei saperi rispetto a questo discorso “meritocratico” (che non condivido e non mi piace) è invece qualcosa di funzionale e allo stesso tempo disfunzionale: nell’ingegneria sociale che ci viene predisposta l’idea è quella di una gerarchizzazione dei saperi senza effettivamente che sia intelligibile quali siano questi saperi utili per il mondo del lavoro. Dal punto di vista della logica dei crediti esiste infatti una sorta di equivalenza universale: un corso in barca vela, un brevetto da subacqueo o il volontariato su un’ambulanza contano più o meno quanto un corso di greco o di latino. In questo modo l’individuo si muove per cercare crediti al fine di costruirsi un curriculum fitto, ma in una prospettiva abbastanza confusa di quello che sarà il mondo del lavoro. Penso banalmente al modo nel quale nella doxa corrente, nel senso comune dei bar, fare l’ingegnere è molto più utile e spendibile sul mercato del lavoro che operare nella conservazione dei beni culturali. Il punto è che chi prova ad analizzare i sistemi di accumulazione contemporanea trova l’importanza che assumono i saperi umanistici, l’analisi dei simboli, la capacità continua di innovare le proprie competenze su una base di organizzazione linguistica dei saperi che di certo non è quella che compete, almeno direttamente, agli ingegneri. E questo secondo me tende a rendere disfunzionale il progetto di gerarchizzazione dei saperi, tanto più disfunzionale quanto più il capitalismo si fa capitalismo a desinenza linguistica. In altre parole il lavoro di un operaio alla catena di montaggio negli anni ’50 consisteva in una mansione che nello schema di Taylor poteva svolgere anche una scimmia, mansioni semplici e ripetitive. Ma chi lavora in una fabbrica oggi deve saper far funzionare i computer, deve aggiornare continuamente i sistemi operativi. Mi è difficile immaginare –come invece è accaduto nella retorica gelminiana – che si debba incentivare la formazione professionale, come se la formazione professionale fosse immediata preparazione al lavoro, per il fatto banale che un ragazzo formato in un istituto professionale secondo certe competenze si troverà a lavorare due mesi dopo il diploma in un mondo che rende le sue competenze materialmente obsolete. Cos’è il mercato del lavoro rispetto al quale si vogliono gerarchizzare i saperi? A me sembra che il ragionamento alla base di queste riforme sia ancora molto rigido e preveda un meccanismo da anni ’50. Oggi è cambiato tutto. Un ruolo centrale nei sistemi produttivi contemporanei è assunto da chi si è formato attraverso quei saperi che la logica di riorganizzazione della scuola in Italia ritiene orpellistici, superflui e improduttivi. Detto schematicamente: quelli capaci di fare innovazione, per capacità creative e capacità di analisi dei simboli non sono certo i “tecnici” forgiati dallo studio dei “saperi utili”, ma gli umanisti. Come spesso mi capita di dire, chi conosce i sistemi di formazione anglo-americani sa che oggi questi riconoscono il fallimento di processi formativi fondati sulla contrapposizione tra saperi utili e cultura umanistica. Basti pensare al dibattito in corso sul modello di scuola pubblica da adottare negli Stati Uniti, che ha messo radicalmente in discussione questo approccio pedagogico esclusivamente fondato sulla trasmissione di competenze professionali specifiche.
Marco Ambra: Veniamo allora all’insegnamento delle scienze umane nella scuola secondaria di secondo grado, nello specifico storia e filosofia. Nella pratica didattica, e in un libro scritto con Giuseppe Duso (Storia dei concetti e filosofia politica, Franco Angeli, Milano 2008, pp.336, 28 euro) lei si fa portatore di un metodo ispirato alla nozione di Storia dei concetti (Begriffsgeschichte) di Reinhart Koselleck e alle genalogie foucaultiane, alla messa in evidenza delle differenze che sorgono all’interno di uno stesso ambito concettuale, della stessa categoria, tra l’uso moderno e quello contemporaneo. L’obiettivo, lei dice, è quello di stimolare lo spirito critico degli studenti, per farli riflettere sull’esaurirsi del contenuto assiologico di alcuni concetti della nostra modernità (democrazia, rappresentanza, politica, ecc...) e sull’assenza di fondamenti in cui il presente ci costringe ad agire. In sintesi, risvegliare lo spirito critico degli studenti significa renderli consapevoli della possibilità che trovare il proprio “posto nel mondo” sia agire il paradosso di una soggettivazione che muove dal fatto di non averne uno. Rispetto all’arretratezza culturale e politica della visione del lavoro alla base degli interventi di riforma della scuola, quale funzione può svolgere l’insegnamento delle scienze umane?
Sandro Chignola: Non è che ci sia una spinta critica che è immane ai saperi, dipende sempre da come vengono insegnati. Io non ho alcuna passione per la didattica, per i metodi ecc... Penso infatti che ci sia un’ideologia del liceo classico italiano, dove ho anche insegnato. Una parte di questa ideologia è che ci sarebbe una risorsa critica immanente dell’umanesimo: si tratta di un’idea obsoleta, poteva forse funzionare quarant’anni fa. Certo, a me interessa sviluppare il pensiero critico degli studenti, ma questo problema non può essere risolto dicendo che la storia in sé, la filosofia in sé, la letteratura in sé, sviluppano questa capacità critica. Perché se vengono insegnate secondo un codice autoritario – secondo un codice che dice questa è la storia della filosofia, questa è la storia – e in maniera molto ripetitiva, è chiaro che questo obiettivo non viene raggiunto. Non è che se un ragazzo impara il mito platonico della caverna secondo uno schema preciso di argomentazioni che gli viene calato dall’alto, sviluppi automaticamente una qualche forma di consapevolezza critica. La mia proposta rispetto all’insegnamento delle scienze umane, invece, è legata a due presupposti fondamentali. Il primo è leggere: io credo che si sviluppi il senso critico degli studenti se assecondi la loro voglia di leggere. Al contrario di una parte di quella ideologia del new public management che ritiene gli studenti una sorta di fessacchiotti passivi, scatole vuote da riempire di competenze, e che dunque insiste sulla connotazione disciplinare della formazione, io nella mia esperienza di insegnante al liceo e alla triennale di filosofia ho riscontrato che gli studenti, se stimolati dall’insegnante, leggono. Il confronto diretto con i testi è a mio parere un aspetto fondamentale per l’insegnamento delle scienze umane anche perché tra le tante cose che sono cambiate negli ultimi quindici anni c’è l’interruzione della trasmissione del sapere in famiglia: nelle mie microinchieste, tra i miei studenti, ho scoperto che molti di loro avevano in casa cinque televisori e pochissimi libri. Il secondo presupposto fondamentale è legato al fatto che bisogna anche fornire gli studenti delle modalità per leggere i testi. In questo senso ho ripreso la storia dei concetti, perché ha una doppia possibilità di sviluppare strumenti di lettura critica. Il primo si gioca sugli assi temporali, e in qualche modo permette di fare quella operazione immaginata da Foucault e Paul Veyne, ovvero la distruzione degli universali storici. Non dobbiamo pensare che quando facciamo storia o filosofia esistano metacategorie universali, che forniscano quadri orientativi complessivi. Questa è un’idea che corrisponde in parte alla doxa contemporanea, e che va decostruita attraverso un sapiente uso della storia. Foucault diceva che ci libereremo dallo storicismo solo attraverso la storia. Questa è un’affermazione clamorosa: tutti i programmi per l’insegnamento delle scienze umane in Italia sono a stretta desinenza storicista! Gli studenti, al contrario, non devono leggere esclusivamente i manuali strutturati secondo questa prospettiva, devono essere portati a leggere direttamente i testi. Bisogna insomma usare la storia per comprendere che queste grandi categorie universali, metanarrative, di fatto rappresentano una sorta di egemonica retroproiezione dei nostri valori, della nostra contemporaneità, sull’asse temporale. Vuol dire per esempio far notare agli studenti che quando Platone pensa secondo modalità e schemi dell’Atene del V sec. a.C. sta impiegando modalità e schemi che non sono quelli di Hegel. Vuol dire in sintesi offrire genealogie, altrimenti il mondo contemporaneo diventa una piovra che fagocita tutto il passato come la propria precondizione. Dico una banalità: se io insegnassi storia e filosofia a scuola, oggi, non avrei difficoltà a immaginare un modulo dentro il quale al di là della storia dei concetti politici della modernità, faccio anche la storia del concetto di mercato. Perché in tutte le riforme che ci vengono proposte questo concetto è presentato con un senso metanarrativo, come l’ambiente naturale all’interno del quale si susseguono gli eventi e veniamo socializzati. È in questo senso che dobbiamo sviluppare senso critico: bisogna far emergere che se siamo dentro un orizzonte di questo tipo è perché si sono incatenate alcune forme di immaginazione teorica e alcuni effetti reali. E questo significa determinare ciò che abbiamo davanti per immaginare degli effetti di superamento. La sapienza di Goethe diceva che «denn alles, was entsteht, // Ist wert, daß es zugrunde geht» (quindi tutto ciò che nasce, // è destinato anche a sparire). La seconda possibilità insita nella storia dei concetti è lo sviluppo del senso critico oltre che sull’asse temporale anche sull’asse spaziale. Per riprendere il titolo di un saggio di Dipesh Chakrabarty bisogna provincializzare l’Europa. Noi siamo abituati a quella idea della filosofia della storia secondo la quale il sapere coincide con il sapere occidentale per come si è evoluto dalla filologia tedesca del XVIII secolo alla caduta del muro di Berlino. Invece ragionare sul fatto che – come dice Sandro Mezzadra – buona parte della storia d’Europa si è svolta fuori dall’Europa, vuol dire sviluppare senso critico: nel senso di affrontare i problemi dell’intercultura, della società interraziale e multiculturale senza partire dal presupposto che gli altri debbano adeguarsi a noi, o che noi facciamo un sacrificio intellettuale se proviamo a comprendere gli altri. Senso critico in senso spaziale significa anche de-limitare in termini non soltanto storici ma anche assiali, il nostro tipo di cultura, valori, storia in relazione ad altre culture, valori, storie che si sono sviluppate secondo razionalità diverse e specifiche. Decostruendo la propria supposta posizione, scoprendo che la propria posizione è tale tra posizioni, non è la posizione dell’universale, e magari sviluppando un senso critico anche rispetto al proprio provincialismo irriflesso, a quello reale, e al fatto che come diceva Marx il mondo è vasto e terribile.
Marco Ambra: Questa de-limitazione sugli assi spaziali e temporali dei concetti politici della modernità, che lei propone come strategia didattica nell’insegnamento della storia e della filosofia, può essere anche applicato alla stessa categoria di scuola pubblica. Le chiedo se a nutrire il frame della crisi dell’istruzione non sia la manifestazione di un limite della categoria di scuola pubblica, come luogo del disciplinamento, di continua attuazione del progetto di “nazionalizzazione delle masse” promosso dalla forma politica dello Stato-nazione. In questo scenario di oltrepassamento, cosa può diventare la scuola?
Sandro Chignola: Io credo che la scuola sia cruciale. In parte perché è l’unico posto nella nostra società in cui si possono sradicare delle abitudini: dalla seconda natura della televisione, dall’assenza di trasmissione dei saperi nelle altre forme di socialità. Quale altro laboratorio sociale può esistere in Italia nel XXI secolo che produce forme di vita, forme di cooperazione tra gli individui che li tolgano dai limiti della socializzazione familiare (che attualmente riproduce più limiti che potenzialità), e nello stesso tempo prova a riprodurre quelle forme di lavoro che sono centrali per la formazione e dunque strategici rispetto a questa nuova società dentro la quale i saperi acquisiscono sempre più rilevanza? Io credo che i processi formativi nella scuola pubblica siano molto più decisivi adesso che negli anni ’60 o ’70. In termini i foucaultiani le scuole possono diventare dei laboratori di dis-asoggettamento. Se gli insegnanti si riappropriano del proprio mestiere, se gli studenti vengono stimolati ad attraversare la scuola non come strumento di nazionalizzazione delle masse o formazione al lavoro, ma come una parte centrale di sperimentazione di sé, allora io credo che in qualche modo sia possibile immaginare una scuola diversa dal ruolo che ha avuto tradizionalmente. Un luogo nel quale vengono decostruite le forme doxastiche, un luogo dove si sperimentano forme avanzate di socializzazione culturale, un luogo nel quale si fanno delle cose insieme e in cui si possono spezzare le gabbie dell’individuazione dell’autoimprenditorialità, che altrimenti renderanno impossibile anche il lavoro a scuola. Rimotivando gli insegnanti e motivando gli studenti, e assumendo la scuola come un laboratorio sociale, culturale e politico, più che come un luogo di trasmissione di doxai, credo che si possano fare cose straordinarie. E non lo dico in termini utopistici o ideologici, conosco scuole dove queste cose si fanno e funzionano molto bene: faccio l’esempio del Liceo Ariosto di Ferrara dove si fanno dei laboratori su Foucault in orari extracurricolari, o del liceo classico di Brescia dove hanno addirittura fondato un’associazione di studenti, professori ed ex studenti ed ex professori per attività che eccedono dagli orari della didattica. Se c’è una controfinalità di questi processi di riforma allora è quella di spegnere queste energie ancora vive piuttosto che incentivarle. E si tratta di un fallimento che riguarda in primo luogo il neoliberismo.
Marco Ambra: Quindi potremmo dire che il futuro della scuola sta nell’iscriverla all’interno dell’orizzonte costituente tracciato dalla stagione politica delle lotte per i beni comuni?
Sandro Chignola: Esattamente, anche se sono un po’ critico di fronte alla retorica dei beni comuni, penso che in questo campo si possa parlare così della scuola pubblica. E questo vale anche per l’università. Io penso che in quella stagione di lotte l’unica cosa sensata che si potesse fare per l’università fosse l’uscita da una logica di scontro tra studenti e baroni, e la convocazione di Stati Generali che coinvolgessero professori, ricercatori e studenti, all’interno dei quali si sarebbe potuta aprire una grande interrogazione su che cosa interessa loro, su cosa fare e su come farlo. Altrimenti se la scuola (e l’università) non è vissuta come un bene comune, non può che esser vissuta come una semplice rotella di un ingranaggio disciplinare che è esattamente il modo in cui viene ripensata e ricostituita dall’ingegneria neoliberale.
Sandro Chignola: Il fatto che io mi riferisca a Sicurezza, territorio e popolazione e alla Nascita della biopolitica per decostruire gli interventi di riforma che si sono abbattuti sulla scuola pubblica a partire dagli anni ’90 è qualcosa che in qualche modo Foucault stesso auspicava quando ribadisce, nelle interviste, di pensare alla propria opera come ad una cassetta degli attrezzi. L’opera foucaultiana non è una disciplina o un pensiero chiuso nella propria coerenza, quanto piuttosto una «freccia scagliata al cuore del presente» (Habermas), un repertorio di argomenti, mosse, analisi che potevano e possono essere proseguite. C’è una serie di conferenze di Foucault attorno alla metà degli anni ’70 in cui dice di avere pensato a tutti i suoi libri come a gallerie di miniere che dovevano crollare, come fuochi d’artificio o addirittura molotov: qualcosa che si consuma nel momento in cui l’analisi produce il proprio effetto. Ora, i due corsi che ho citato all’inizio sono straordinari per le cose che metti a tema nella domanda. Soprattutto per quello che la Nascita della biopolitica dice rispetto alla relazione tra governamentalità e neoliberismo. Quando Foucault comincia ad applicare il lessico della governamentalità ha di fronte un duplice problema. In primo luogo quello di iniziare a pensare il soggetto come soggettivazione, come processo, mentre invece per un lungo periodo lo aveva pensato come oggettivato dalle pratiche di assoggettamento. Questo è straordinariamente rilevante per capire come mai – e questo mi sembra il secondo aspetto problematico – le tecnologie di governo neoliberali cerchino di disciplinare un soggetto in movimento che deve in qualche modo aggiogarsi volontariamente, riproducendo una sorta di servitù volontaria. In altre parole, la governamentalità neoliberale si rivolge ad un soggetto che viene disciplinato nella propria autonomia, dentro i suoi processi di formazione, impattando la sua stessa voglia di essere governato. È esattamente attraverso la realizzazione di questo grande scambio che l’autonomia del soggetto viene limitata, viene resa funzionale all’applicazione della strategia governamentale. Dentro questo passaggio, che io reputo decisivo, si sviluppa la riflessione dell’ultimo Foucault: quella tesa all’analisi di processi di soggettivazione e forme di vita che, in qualche modo, pur nella relazione con il governo tendono a mantenere e riprodurre spazi di libertà vera. Nella Nascita della biopolitica Foucault, laddove parla della economizzazione del potere, rileva come l’ideologia neoliberista tenda a valorizzare queste figure di imprenditorialità autonoma, in particolare dentro i processi formativi (ma si può anche fare l’esempio dei soggetti delle migrazioni) e che sono particolarmente centrate dal punto di vista dell’analitica. Infatti, se inizialmente i processi disciplinari tendono a formare il soggetto nella misura in cui lo bloccano e lo fissano (tutta l’analitica dell’individuazione in Sorvegliare e punire e nelle cose scritte nei primi anni ’70), da un certo momento in poi Foucault si rende conto che la territorializzazione dell’individuo, la spillatura che la disciplina produce nel momento in cui un soggetto viene creato dentro una biografia, deve essere ecceduta da procedure che invece non lo fissino in una casella; e questa è la grande intuizione delle procedure neoliberali. A lezione faccio sempre l’esempio di come io, quando facevo le elementari, in una scuola ancora molto disciplinare, avevo un posto fisso all’interno della classe: il primo banco, perché ero il primo della classe e il figlio del medico del paese, quello che “meritava” una formazione più specifica. Ora, tutte le strategie disciplinari che entrano in crisi con il neoliberismo hanno questa presunzione: gerarchizzare vuol dire fissare, riprodurre una società rigida che in qualche modo corrisponde – non lo dice Foucault, lo dico io che sono un vecchio operaista – agli schemi della grande fabbrica sociale fordista. Questo ti assicurava, qualora tu fossi stato al primo banco la formazione migliore, se invece fossi stato figlio di un operaio o di un contadino e ti fosse capitato l’ultimo banco, ti sarebbe spettata una formazione consona al tuo destino sociale bloccato. In altre parole, l’ordine gerarchico della scuola disciplinare riproduceva nel tuo destino sociale le condizioni di partenza della tua famiglia. Quando Foucault inizia a fare l’analisi del neoliberismo ha il problema di interpretare come questo tipo di ordine corrispondente alla società fordista, vada in frantumi. Quello che l’interpretazione foucaultiana di questo processo di frantumazione rileva è l’innesto sul soggetto, nei processi formativi e sempre in termini disciplinari (sia chiaro che per Foucault non esiste un’età della disciplina sostituita da un’età della governamentalità, perché tutti i processi procedono attraverso strategie parallele che di volta in volta utilizzano ciò che è più funzionale al potere) della spinta non più alla riproduzione di una ordine sociale gerarchico ma all’autoimprenditorialità. La governamentalità neoliberale risponde alla frantumazione della società fordista dicendo: “siete liberi, incentivo la vostra autonomia, nella forma però della competizione degli uni con gli altri”. In particolare per quanto riguarda la scuola, questa risposta si realizza nell’introduzione di alcuni strumenti disciplinari come il sistema dell’acquisizione dei crediti formativi, liberi e non. Una logica questa assolutamente evidente nelle ultime riforme. Lasciando perdere Foucault, perché come dicevo all’inizio c’è quello che riguarda Foucault e quello che ci spinge fuori di Foucault, in tutti gli interventi di riforma della scuola – dalla Moratti in poi – vediamo che l’ossessione del “portfolio delle competenze” come raccolta individuale di percossi curricolari fatti attraverso l’acquisizione dei crediti (liberi e non), diventi uno strumento disciplinare utilizzato per riprodurre questa idea del soggetto come imprenditore di sé. Quello che mi pare più interessante, e che Foucault ha colto lucidamente, è una sorta di continuità tra la governamentalità neoliberale e un progetto di costruzione della società. Infatti, si è sempre pensato che il liberalismo e il neoliberismo siano legati ad una razionalità di tipo astensivo (lo stato minimo, la libertà di scelta), invece entrambi sostengono un progetto di costruzione della società che parte appunto non tanto dalla società nel suo complesso, ma come dice Foucault in un saggio fondamentale come Omnes et singulatim, da un razionalità generale che si incista e produce attraverso il singolo individuo. Un mattone fondamentale di questo processo di costruzione della società è la riforma della scuola e della università: attraverso il ricatto del debito che mette in competizione tra loro gli individui, attraverso lo smantellamento della scuola pubblica e della sua missione sociale, e più in generale attraverso la messa in movimento dei singoli individui con strumenti disciplinari come il portfolio delle competenze, consultabile dalle prime esperienze scolastiche fino all’ingresso nel mondo del lavoro (immaginato in questi interventi di riorganizzazione come qualcosa di sottratto alle trasformazioni che lo hanno interessato in questi ultimi anni). La scuola diventa allora una delle agenzie formative tra le altre, e in parallelo queste agenzie formative sono pensate in competizione tra di loro. I crediti con cui riempire il portfolio dello studente possono così venire dalla scuola, dal volontariato, dalle scuole private che rilasciano certificati sulle competenze informatiche o linguistiche, dall’associazionismo di ogni genere e specie. Il tutto dentro un percorso formativo in cui i soggetti che vi entrano vengono disciplinati attraverso un’idea della concorrenza, dell’utilità, dell’autoimprenditorialità da incentivarsi, visto che nel mondo del lavoro si troveranno a competere con altri in un contesto di risorse sempre più scarse.
Marco Ambra: In questa prospettiva quale funzione assolve la crescente rilevanza data alla gerarchizzazione dei saperi insegnati a scuola, nel senso di una contrapposizione sempre più marcata tra “saperi utili” propedeutici alla formazione professionale dello studente e la “cultura umanistica”, come orpello retorico privo di scopo produttivo?
Sandro Chignola: Io credo che la gerarchizzazione dei saperi sia funzionale ma allo stesso tempo disfunzionale. Come dire: per gli effetti che rischia di produrre, la gerarchizzazione dei saperi è l’aspetto più arretrato dell’immaginazione di un’ingegneria sociale (quella fordista) che già è arretrata di per sé. Cioè è soltanto all’interno del sistema di produzione fordista che si può immaginare di formare gli individui per un mercato del lavoro che li assorbirà secondo una corrispondenza immediata tra il posto di lavoro e la formazione ricevuta. No, non è mai stato così, nemmeno in una società più gerarchica di questa. Ad esempio, la riforma Gentile permetteva soltanto a chi avesse proseguito gli studi al Liceo classico e fosse stato “meritevole” di entrare all’università, ma al tempo stesso faceva scorrere quelle assi di recupero orizzontale che avrebbero permesso, attraverso la “barriera” del latino, a chi avesse studiato in un Istituto magistrale di fare un anno in più, e al posto di diventare meccanicamente un maestro elementare di accedere alla carriera universitaria. Se da un lato quella idea di scuola corrispondeva ad una società piuttosto rigida e quindi si poteva immaginare una specie di corrispondenza lineare tra il mondo del lavoro e la formazione scolastica, dall’altro si trattava di un modello paradossalmente più aperto di quello di adesso: i miei nonni avevano la seconda elementare, mio padre faceva il medico e io sono un professore universitario. C’era, insomma, l’idea di una mobilità sociale ascendente all’interno di una gerarchia precisa che si basava su qualcosa di diverso dalla posizione sociale di partenza. Insomma c’era un’idea gerarchica e limitata, ma di effettiva “progressione meritocratica”. La gerarchizzazione dei saperi rispetto a questo discorso “meritocratico” (che non condivido e non mi piace) è invece qualcosa di funzionale e allo stesso tempo disfunzionale: nell’ingegneria sociale che ci viene predisposta l’idea è quella di una gerarchizzazione dei saperi senza effettivamente che sia intelligibile quali siano questi saperi utili per il mondo del lavoro. Dal punto di vista della logica dei crediti esiste infatti una sorta di equivalenza universale: un corso in barca vela, un brevetto da subacqueo o il volontariato su un’ambulanza contano più o meno quanto un corso di greco o di latino. In questo modo l’individuo si muove per cercare crediti al fine di costruirsi un curriculum fitto, ma in una prospettiva abbastanza confusa di quello che sarà il mondo del lavoro. Penso banalmente al modo nel quale nella doxa corrente, nel senso comune dei bar, fare l’ingegnere è molto più utile e spendibile sul mercato del lavoro che operare nella conservazione dei beni culturali. Il punto è che chi prova ad analizzare i sistemi di accumulazione contemporanea trova l’importanza che assumono i saperi umanistici, l’analisi dei simboli, la capacità continua di innovare le proprie competenze su una base di organizzazione linguistica dei saperi che di certo non è quella che compete, almeno direttamente, agli ingegneri. E questo secondo me tende a rendere disfunzionale il progetto di gerarchizzazione dei saperi, tanto più disfunzionale quanto più il capitalismo si fa capitalismo a desinenza linguistica. In altre parole il lavoro di un operaio alla catena di montaggio negli anni ’50 consisteva in una mansione che nello schema di Taylor poteva svolgere anche una scimmia, mansioni semplici e ripetitive. Ma chi lavora in una fabbrica oggi deve saper far funzionare i computer, deve aggiornare continuamente i sistemi operativi. Mi è difficile immaginare –come invece è accaduto nella retorica gelminiana – che si debba incentivare la formazione professionale, come se la formazione professionale fosse immediata preparazione al lavoro, per il fatto banale che un ragazzo formato in un istituto professionale secondo certe competenze si troverà a lavorare due mesi dopo il diploma in un mondo che rende le sue competenze materialmente obsolete. Cos’è il mercato del lavoro rispetto al quale si vogliono gerarchizzare i saperi? A me sembra che il ragionamento alla base di queste riforme sia ancora molto rigido e preveda un meccanismo da anni ’50. Oggi è cambiato tutto. Un ruolo centrale nei sistemi produttivi contemporanei è assunto da chi si è formato attraverso quei saperi che la logica di riorganizzazione della scuola in Italia ritiene orpellistici, superflui e improduttivi. Detto schematicamente: quelli capaci di fare innovazione, per capacità creative e capacità di analisi dei simboli non sono certo i “tecnici” forgiati dallo studio dei “saperi utili”, ma gli umanisti. Come spesso mi capita di dire, chi conosce i sistemi di formazione anglo-americani sa che oggi questi riconoscono il fallimento di processi formativi fondati sulla contrapposizione tra saperi utili e cultura umanistica. Basti pensare al dibattito in corso sul modello di scuola pubblica da adottare negli Stati Uniti, che ha messo radicalmente in discussione questo approccio pedagogico esclusivamente fondato sulla trasmissione di competenze professionali specifiche.
Marco Ambra: Veniamo allora all’insegnamento delle scienze umane nella scuola secondaria di secondo grado, nello specifico storia e filosofia. Nella pratica didattica, e in un libro scritto con Giuseppe Duso (Storia dei concetti e filosofia politica, Franco Angeli, Milano 2008, pp.336, 28 euro) lei si fa portatore di un metodo ispirato alla nozione di Storia dei concetti (Begriffsgeschichte) di Reinhart Koselleck e alle genalogie foucaultiane, alla messa in evidenza delle differenze che sorgono all’interno di uno stesso ambito concettuale, della stessa categoria, tra l’uso moderno e quello contemporaneo. L’obiettivo, lei dice, è quello di stimolare lo spirito critico degli studenti, per farli riflettere sull’esaurirsi del contenuto assiologico di alcuni concetti della nostra modernità (democrazia, rappresentanza, politica, ecc...) e sull’assenza di fondamenti in cui il presente ci costringe ad agire. In sintesi, risvegliare lo spirito critico degli studenti significa renderli consapevoli della possibilità che trovare il proprio “posto nel mondo” sia agire il paradosso di una soggettivazione che muove dal fatto di non averne uno. Rispetto all’arretratezza culturale e politica della visione del lavoro alla base degli interventi di riforma della scuola, quale funzione può svolgere l’insegnamento delle scienze umane?
Sandro Chignola: Non è che ci sia una spinta critica che è immane ai saperi, dipende sempre da come vengono insegnati. Io non ho alcuna passione per la didattica, per i metodi ecc... Penso infatti che ci sia un’ideologia del liceo classico italiano, dove ho anche insegnato. Una parte di questa ideologia è che ci sarebbe una risorsa critica immanente dell’umanesimo: si tratta di un’idea obsoleta, poteva forse funzionare quarant’anni fa. Certo, a me interessa sviluppare il pensiero critico degli studenti, ma questo problema non può essere risolto dicendo che la storia in sé, la filosofia in sé, la letteratura in sé, sviluppano questa capacità critica. Perché se vengono insegnate secondo un codice autoritario – secondo un codice che dice questa è la storia della filosofia, questa è la storia – e in maniera molto ripetitiva, è chiaro che questo obiettivo non viene raggiunto. Non è che se un ragazzo impara il mito platonico della caverna secondo uno schema preciso di argomentazioni che gli viene calato dall’alto, sviluppi automaticamente una qualche forma di consapevolezza critica. La mia proposta rispetto all’insegnamento delle scienze umane, invece, è legata a due presupposti fondamentali. Il primo è leggere: io credo che si sviluppi il senso critico degli studenti se assecondi la loro voglia di leggere. Al contrario di una parte di quella ideologia del new public management che ritiene gli studenti una sorta di fessacchiotti passivi, scatole vuote da riempire di competenze, e che dunque insiste sulla connotazione disciplinare della formazione, io nella mia esperienza di insegnante al liceo e alla triennale di filosofia ho riscontrato che gli studenti, se stimolati dall’insegnante, leggono. Il confronto diretto con i testi è a mio parere un aspetto fondamentale per l’insegnamento delle scienze umane anche perché tra le tante cose che sono cambiate negli ultimi quindici anni c’è l’interruzione della trasmissione del sapere in famiglia: nelle mie microinchieste, tra i miei studenti, ho scoperto che molti di loro avevano in casa cinque televisori e pochissimi libri. Il secondo presupposto fondamentale è legato al fatto che bisogna anche fornire gli studenti delle modalità per leggere i testi. In questo senso ho ripreso la storia dei concetti, perché ha una doppia possibilità di sviluppare strumenti di lettura critica. Il primo si gioca sugli assi temporali, e in qualche modo permette di fare quella operazione immaginata da Foucault e Paul Veyne, ovvero la distruzione degli universali storici. Non dobbiamo pensare che quando facciamo storia o filosofia esistano metacategorie universali, che forniscano quadri orientativi complessivi. Questa è un’idea che corrisponde in parte alla doxa contemporanea, e che va decostruita attraverso un sapiente uso della storia. Foucault diceva che ci libereremo dallo storicismo solo attraverso la storia. Questa è un’affermazione clamorosa: tutti i programmi per l’insegnamento delle scienze umane in Italia sono a stretta desinenza storicista! Gli studenti, al contrario, non devono leggere esclusivamente i manuali strutturati secondo questa prospettiva, devono essere portati a leggere direttamente i testi. Bisogna insomma usare la storia per comprendere che queste grandi categorie universali, metanarrative, di fatto rappresentano una sorta di egemonica retroproiezione dei nostri valori, della nostra contemporaneità, sull’asse temporale. Vuol dire per esempio far notare agli studenti che quando Platone pensa secondo modalità e schemi dell’Atene del V sec. a.C. sta impiegando modalità e schemi che non sono quelli di Hegel. Vuol dire in sintesi offrire genealogie, altrimenti il mondo contemporaneo diventa una piovra che fagocita tutto il passato come la propria precondizione. Dico una banalità: se io insegnassi storia e filosofia a scuola, oggi, non avrei difficoltà a immaginare un modulo dentro il quale al di là della storia dei concetti politici della modernità, faccio anche la storia del concetto di mercato. Perché in tutte le riforme che ci vengono proposte questo concetto è presentato con un senso metanarrativo, come l’ambiente naturale all’interno del quale si susseguono gli eventi e veniamo socializzati. È in questo senso che dobbiamo sviluppare senso critico: bisogna far emergere che se siamo dentro un orizzonte di questo tipo è perché si sono incatenate alcune forme di immaginazione teorica e alcuni effetti reali. E questo significa determinare ciò che abbiamo davanti per immaginare degli effetti di superamento. La sapienza di Goethe diceva che «denn alles, was entsteht, // Ist wert, daß es zugrunde geht» (quindi tutto ciò che nasce, // è destinato anche a sparire). La seconda possibilità insita nella storia dei concetti è lo sviluppo del senso critico oltre che sull’asse temporale anche sull’asse spaziale. Per riprendere il titolo di un saggio di Dipesh Chakrabarty bisogna provincializzare l’Europa. Noi siamo abituati a quella idea della filosofia della storia secondo la quale il sapere coincide con il sapere occidentale per come si è evoluto dalla filologia tedesca del XVIII secolo alla caduta del muro di Berlino. Invece ragionare sul fatto che – come dice Sandro Mezzadra – buona parte della storia d’Europa si è svolta fuori dall’Europa, vuol dire sviluppare senso critico: nel senso di affrontare i problemi dell’intercultura, della società interraziale e multiculturale senza partire dal presupposto che gli altri debbano adeguarsi a noi, o che noi facciamo un sacrificio intellettuale se proviamo a comprendere gli altri. Senso critico in senso spaziale significa anche de-limitare in termini non soltanto storici ma anche assiali, il nostro tipo di cultura, valori, storia in relazione ad altre culture, valori, storie che si sono sviluppate secondo razionalità diverse e specifiche. Decostruendo la propria supposta posizione, scoprendo che la propria posizione è tale tra posizioni, non è la posizione dell’universale, e magari sviluppando un senso critico anche rispetto al proprio provincialismo irriflesso, a quello reale, e al fatto che come diceva Marx il mondo è vasto e terribile.
Marco Ambra: Questa de-limitazione sugli assi spaziali e temporali dei concetti politici della modernità, che lei propone come strategia didattica nell’insegnamento della storia e della filosofia, può essere anche applicato alla stessa categoria di scuola pubblica. Le chiedo se a nutrire il frame della crisi dell’istruzione non sia la manifestazione di un limite della categoria di scuola pubblica, come luogo del disciplinamento, di continua attuazione del progetto di “nazionalizzazione delle masse” promosso dalla forma politica dello Stato-nazione. In questo scenario di oltrepassamento, cosa può diventare la scuola?
Sandro Chignola: Io credo che la scuola sia cruciale. In parte perché è l’unico posto nella nostra società in cui si possono sradicare delle abitudini: dalla seconda natura della televisione, dall’assenza di trasmissione dei saperi nelle altre forme di socialità. Quale altro laboratorio sociale può esistere in Italia nel XXI secolo che produce forme di vita, forme di cooperazione tra gli individui che li tolgano dai limiti della socializzazione familiare (che attualmente riproduce più limiti che potenzialità), e nello stesso tempo prova a riprodurre quelle forme di lavoro che sono centrali per la formazione e dunque strategici rispetto a questa nuova società dentro la quale i saperi acquisiscono sempre più rilevanza? Io credo che i processi formativi nella scuola pubblica siano molto più decisivi adesso che negli anni ’60 o ’70. In termini i foucaultiani le scuole possono diventare dei laboratori di dis-asoggettamento. Se gli insegnanti si riappropriano del proprio mestiere, se gli studenti vengono stimolati ad attraversare la scuola non come strumento di nazionalizzazione delle masse o formazione al lavoro, ma come una parte centrale di sperimentazione di sé, allora io credo che in qualche modo sia possibile immaginare una scuola diversa dal ruolo che ha avuto tradizionalmente. Un luogo nel quale vengono decostruite le forme doxastiche, un luogo dove si sperimentano forme avanzate di socializzazione culturale, un luogo nel quale si fanno delle cose insieme e in cui si possono spezzare le gabbie dell’individuazione dell’autoimprenditorialità, che altrimenti renderanno impossibile anche il lavoro a scuola. Rimotivando gli insegnanti e motivando gli studenti, e assumendo la scuola come un laboratorio sociale, culturale e politico, più che come un luogo di trasmissione di doxai, credo che si possano fare cose straordinarie. E non lo dico in termini utopistici o ideologici, conosco scuole dove queste cose si fanno e funzionano molto bene: faccio l’esempio del Liceo Ariosto di Ferrara dove si fanno dei laboratori su Foucault in orari extracurricolari, o del liceo classico di Brescia dove hanno addirittura fondato un’associazione di studenti, professori ed ex studenti ed ex professori per attività che eccedono dagli orari della didattica. Se c’è una controfinalità di questi processi di riforma allora è quella di spegnere queste energie ancora vive piuttosto che incentivarle. E si tratta di un fallimento che riguarda in primo luogo il neoliberismo.
Marco Ambra: Quindi potremmo dire che il futuro della scuola sta nell’iscriverla all’interno dell’orizzonte costituente tracciato dalla stagione politica delle lotte per i beni comuni?
Sandro Chignola: Esattamente, anche se sono un po’ critico di fronte alla retorica dei beni comuni, penso che in questo campo si possa parlare così della scuola pubblica. E questo vale anche per l’università. Io penso che in quella stagione di lotte l’unica cosa sensata che si potesse fare per l’università fosse l’uscita da una logica di scontro tra studenti e baroni, e la convocazione di Stati Generali che coinvolgessero professori, ricercatori e studenti, all’interno dei quali si sarebbe potuta aprire una grande interrogazione su che cosa interessa loro, su cosa fare e su come farlo. Altrimenti se la scuola (e l’università) non è vissuta come un bene comune, non può che esser vissuta come una semplice rotella di un ingranaggio disciplinare che è esattamente il modo in cui viene ripensata e ricostituita dall’ingegneria neoliberale.
domenica 19 agosto 2012
Revisiting Foucault: War in peace and the question of 'power' by Charles Ponnuthurai Sarvan @ JDS, Sri Lanka, 10 August 2012
The word “peace” can connote the presence of a good degree of justice and harmony, or the absence of (overt, armed and violent) conflict. The observation in his treatise 'On War' by Carl von Clausewitz (1780 – 1831) –“war is the continuation of politics by other means” - is well-known. (See also ‘The Art of War’ by Sun-tzu, BCE 380-316, and ‘The Arthashastra’ by Kautilya.) Among Michael Foucault’s chief concerns is the question of power: its forms and manifestations; its workings and effect. Power is not to be associated only with force, punishment and repression by the state. It functions also at the sub-state level; is regulatory and “productive”, for example, of discourse. Foucault, inverting Clausewitz, says that 'politics is the continuation of war by other means.'
Political power puts an end to war, but not in order to suspend the effects of power or to neutralize the disequilibrium revealed by the last battle of the war (Foucault, 'Society Must Be Defended'). On the contrary, the state can use military victory to re-inscribe that relationship of force in institutions, economic inequalities, language, and even on the bodies of individuals (op. cit.). From the 1910s to the early 1970s, aboriginal children of mixed race were placed in white foster-homes or settlement camps in a policy of forced assimilation that sought to “speed the disappearance of aboriginal culture” (Michael Sandel, Justice, 2010).
What passes for Law (sometimes mistaken for 'Justice') is born of battle, massacre, conquest and their “horrific heroes”; is born in burning towns and villages; in ravaged fields, together with the innocent who died at break of day (Foucault). Power circulates. It is a network where some, submitting to power, get to exercise power. “Racism” by the state can be directed against groups of its own population, and “peace” can be but a code-word for war. Power produces discourses of “truth”, and so even when the history of peace is written, at root, it’s a history of war. History is the discourse of power - and its intensifier: the description of a war can be a weapon of war. The history of some is not the history of others, and what looks like right to one group is the abuse of power, violation and exaction to another (Foucault).
Destruction of the ‘Other’
“Race”, Foucault argues, doesn’t have a scientific, biological, meaning: the real meaning of “race” is historical and political. (See, ‘The term “racism” and discourse’ in Sarvan - Sri Lanka: Literary Essays & Sketches, 2011.) Racism is a mechanism of power, exercised to serve a particular function. It fragments people into unequal categories, with one being classified as superior; the other, not only as inferior but abnormal. The relationship is mortal: the life of one group is thought to depend on the death or total subjection of the other. Biologically, the death of the inferior group is necessary not only for one’s group to survive, but to become healthier and purer; more successful and happy. Thus, the violent destruction of the ‘Other’ becomes a way of regenerating one’s own group (Foucault).
We must bear in mind that “people are seized with a kind of madness when they take to violence. The violence carries them along, transforms them and makes them – even afterward, when it’s all over – unrecognizable” (Sven Lindqvist, 'Exterminate All The Brutes' - 2007). Power claims to possess the truth, the only truth. In its control of discourse, it not only writes and re-writes, but it suppresses and erases. After almost three quarters of a century, Thea Halo took her mother, a Pontic Greek,back to visit her childhood village in Turkey. The title of the resulting book tells it all: 'Not Even My Name' (2001).
In ‘Romeo & Juliet’, it is innocence (ignorance) that makes Juliet– she’s not quite fourteen - ask: “What’s in a name?” As I have pointed out elsewhere, in Sri Lanka whether a name ends with a vowel or consonant can make an awful lot of difference: for example, Rajaratne (Sinhalese) or Rajaratnam (Tamil). Names of streets and buildings are changed, statues destroyed and graves desecrated. (For the last, see Anne Abaysekara’s 'Open letter to the Defence Secretary' - The Island, Colombo, 19 May 2010.) The attempt is to alter and erase; falsify and re-write. Ananda Commaraswamy (1877 – 1947) is a scholar of international repute, one who did much work on Buddhism, Buddhist philosophy and art. Yet, seen as a Tamil, the street named after him is now ‘Nelum Pokuna Mawatha’. I received the following message from a friend in Colombo (August 2012): “Gandhiji's statues were brutally vandalised twice in recent times, a few months ago in Trincomalee, and last week in Jaffna. It reveals the sheer hatred in the populace of all Tamil (and by extension Indian) cultural symbols”.
“Most people in the South are ignorant of the true state of affairs in the North and East, while the others are just indifferent. Yours sorrowfully, Anne Abeysekera” - personal message from a (Sinhalese) friend, 6 August 2012. The outside world chooses, prefers, to think that with the annihilation of the Tigers, there’s now peace in the Paradise Isle, the land of the Compassionate Buddha. But what is the nature of this “peace”? For whom is it “peace”? In reality the war continues to be waged without compassion - and now (the Tamil Tigers having been eliminated) with complete impunity. (See, for example, ‘State Violence in Sri Lanka: The International Community and the Myth of Normalisation’ by Samuel Thampapillai in ‘Somatechnics’, Edinburg University Press, 2011.)
'Memoryscape'
Of a truth, “absolute power corrupts absolutely” (Lord Acton). As Foucault notes, what leads to a brutal and unjust society is not defeat itself, but what is done after victory. I quote from my letter to Mr. Hemantha Warnakulasuriya (President’s Counsel and former Ambassador), published by him in 'The Island' newspaper (Colombo, 9 July 2012): “You do not address issues such as massive military occupation; state-sponsored colonization, the expropriation of land; the cultural onslaught (‘culture’ in its wider meaning); the lack of equality, and the sense of dignity that goes with it; discrimination in opportunity and employment etc.” To this list, one could add insult, intimidation and brutality become commonplace; abduction and murder. Most often, the victims are not middle-class Tamils but simple, innocent, folk: unknown and helpless; human and deeply grieving. World over, the wounds (physical, psychological) of such victims go unattended; their cries unheeded, and their tears un-wiped.
The term“landscape” has led to words such as skyscape, winterscape, “the landscape of thought”, and to “memoryscape”. Rosalind Shaw observes (Memories of the Slave Trade, 2002) that the remembering of violence and injustice, “memoryscape”, can be non-discursive: though not verbally expressed, it exists. To “dismember” is to take apart, usually with violence. To “remember” is to recall, but it is also to “re-member” (make a “member” again); to heal and re-join what has been separated. The struggle is to protect and preserve; to remember and to “re-member”, in the face of cruel power. The struggle is to realize real peace, and a society that is just and free, concerned and caring, ethical and decent. * (With thanks to Liebetraut Sarvan for comment and criticism.)
Charles Ponnuthurai Sarvan studied at the University of Ceylon, Peradeniya and left for England two years after his graduation. He obtained the degree of Master of Philosophy and Doctor of Philosophy from the University of London. He was the contributing Editor of English Literature: Introductory Essays (National Educational Company, Lusaka, 1981) and co-author of Readings in Poetry (Lusaka, 1986). Professor Sarvan, now retired, taught in Sri Lanka, England, Nigeria, Zambia, the Middle East and Germany.
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sabato 18 agosto 2012
COSA VUOL DIRE AMARE - Mathieu Lindon (Barbes Editore, Ita, 2012)
Cresciuto negli uffici delle Editions de Minuit, casa editrice francesi tra le più importanti (pubblicò, tra gli altri, Samuel Beckett, Marguerite Duras, Jacques Derrida, Arthur Miller, Gilles Deleuze), fondata e diretta dai suoi genitori, Mathieu Lindon ha conosciuto e frequentato sin dall’infanzia i più noti intellettuali e scrittori francesi del dopoguerra.
In “Cosa vuol dire amare” Mathieu racconta la sua giovinezza agitata, a tratti confusa, e la sua educazione sentimentale, all’ombra di due grandi figure: il padre editore, Jerome Lindon, altero, ingombrante e spesso imperscrutabile, ma pronto a schiudergli con naturalezza le porte del mondo; e Michel Foucault, mentore e maestro di libertà, oggetto di un amore e di un’ammirazione sconfinati, di cui l’intero libro è testimonianza.
Al fianco di amici e amanti come Hervè Guibert e Daniel Defert, Lindon ricorda i molti momenti passati con l’autore de “Le parole e le cose”, le sue idee sulla sessualità, i primi esperimenti con l’LSD, il rapporto di Foucault con l’industria culturale, a cui lui stesso è legato. Le memorie di gioventù diventano così romanzo, una vera e propria storia d’amore e di letteratura, tra i cui personaggi compaiono anche Beckett, Alain Robbe-Grillet, Roland Barthes. E quel che prevale non è l’interesse storico o documentaristico, ma uno sguardo di profonda innocenza sugli uomini, di lettere e non, le loro ambizioni, i movimenti del cuore, la giovinezza, l’amicizia.
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Nato nel 1955, Mathieu Lindon pubblica il suo primo romanzo, Nos plaisirs, nel 1983. Nel 1984 diventa critico letterario del quotidiano “Libération” e cronista, lavoro che prosegue fino ad oggi. Nel 1987 il suo romanzo Prince et Léonardours viene minacciato di censura ma è poi salvato da una reazione degli intellettuali. Nel 1998 pubblica Champion du monde e Le procès de Jean-Marie Le Pen, e il segretario del Front National ottiene che il libro venga condannato e ritirato. Una nuova petizione di scrittori e intellettuali, e il ricorso alla corte europea dei diritti dell’uomo gli permettono di tornare in libreria. Tra gli altri suoi romanzi ricordiamo Ma catastrophe adorée (2004) e Ceux qui tiennent debout (2006). Ce qu’aimer veut dire, comparso in Francia nel 2011, è il suo maggior successo.
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domenica 12 agosto 2012
Michel Foucault. Mal faire, dire vrai Fonction de l’aveu en justice
Michel Foucault
Mal faire, dire vrai
Fonction de l’aveu en justice
Édition établie par Fabienne Brion et Bernard E. Harcourt
Presses universitaires de Louvain, Louvain-la-Neuve (2012)
Co-éditeur : University of Chicago Press
382 pages
Aux mois d’avril et de mai 1981, Michel Foucault prononce un cours qu’il intitule Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice. Il y poursuit l’élaboration de la notion de gouvernement par la vérité, introduite en janvier 1979 dans La naissance de la biopolitique puis reprise en janvier 1980 dans Le gouvernement des vivants pour donner un contenu positif et différencié à la notion de savoir-pouvoir et opérer par rapport à celle d’idéologie dominante un second déplacement.
Le cours est la trace d’un engagement militant : le fruit de l’alliance nouée avec des juristes radicaux, sous l’égide de l’École de criminologie de l’Université catholique de Louvain, à l’occasion d’un projet de révision du code pénal en vigueur en Belgique. Adressé à un public de juristes et de criminologues, il replace l’analyse du développement de l’aveu pénal dans l’histoire plus générale des technologies du sujet et examine diverses techniques par lesquelles
l’individu est amené, soit par lui-même, soit avec l’aide ou sous la direction d’un autre, à se transformer et à modifier son rapport à soi. D’entrée de jeu, Michel Foucault annonce que le problème qui l’occupe a deux aspects. Politique :
« savoir comment l’individu se trouve lié, et accepte de se lier au pouvoir qui s’exerce sur lui ». Philosophique :
« savoir comment les sujets sont effectivement liés dans et par les formes de véridiction où ils s’engagent ».
Ainsi conçues, les leçons peuvent se lire comme une suite donnée à Surveiller et punir ou comme une première esquisse de l’analyse de la parrêsia et des formes alêthurgiques développée dans Le courage de la vérité. Avec le sujet avouant, ce n’est pas seulement le thème du dire vrai qui est introduit. Parce que les formes de véridiction ont partie liée avec l’assujettissement et la déprise de soi, c’est aussi la question de ce qui s’en déduit pour la philosophie critique – qu’en l’occurrence, Michel Foucault met en oeuvre, à la croisée de l’activité pratique et de l’activité théorique, de la politique et de l’éthique.
PRESSES
UNIVERSITAIRES
DE LOUVAIN
UCL
Table des matières
Mal faire, dire vrai
Note des éditeurs ............................................................................................................V
Conférence inaugurale ....................................................................................................1
Leuret, l’aveu et l’opération thérapeutique. – Effets supposés du dire vrai sur soi et de
la connaissance de soi. – Caractères de l’aveu. – Extension dans les sociétés chrétiennes
occidentales : des individus liés à leur vérité, et obligés dans leurs rapports aux autres par
la vérité dite. – un problème historico-politique : comment l’individu se lie à sa vérité
et au pouvoir qui s’exerce sur lui. – un problème historico-philosophique : comment
les individus sont liés par les formes de véridiction où ils s’engagent. – un contrepoint
au positivisme : la philosophie critique des véridictions. – Le problème du « qui juge-t-
on ? » dans l’institution pénale. – Pratique pénale et technologie de gouvernement. – Le
gouvernement par la vérité.
Leçon du 22 avril 1981 ..................................................................................................17
une ethnologie politique et institutionnelle de la parole vraie. – dire vrai, dire juste. –
Limites de l’étude. – Véridiction et juridiction dans l’Iliade d’Homère. – Le combat de
Ménélas et Antilokhos. – objet de l’aveu d’Antilokhos. – Justice et agôn ; agôn et vérité.
– La course et le défi de serment, deux liturgies du vrai, deux jeux destinés à représenter
avec justesse la vérité des forces. – un rituel de commémoration. – Véridiction et
juridiction dans Les travaux et les jours d’Hésiode. – Le dikazein et le krinein. – Le
serment des plaideurs et des cojureurs dans le dikazein : un jeu à deux, le critère étant
le poids social des adversaires. – Le serment du juge dans le krinein : un jeu à trois, le
critère étant le dikaion. – du poids social des adversaires à la « réalité des choses » :
dikaion et alêthes.
Leçon du 28 avril 1981 ..................................................................................................47
représentation du droit dans Œdipe roi, de sophocle. – un paradigme judiciaire. – Les
ressorts de la tragédie. – deux anagnôriseis, trois alêthurgies. – Véridiction et prophétie.
– Véridiction et tyrannie. – Véridiction et témoignage d’aveu. – Grandeur des parties,
liberté de parole et conditions de l’effet de vérité dans l’enquête. – La reconnaissance par
le chœur, condition de la reconnaissance par Œdipe. – du dire vrai au dire « je ». – une
procédure conforme au nomos, une véridiction qui répète celle du prophète et complète
celle de l’homme de la tekhnê tekhnês.
Leçon du 29 avril 1981 ..................................................................................................89
Herméneutique du texte et herméneutique de soi dans le christianisme primitif. –
Mal faire, dire vrai366
Véridiction de soi dans l’Antiquité païenne. – L’examen de conscience pythagoricien :
purification de soi et mnémotechnique. – L’examen de conscience stoïcien : gouvernement
de soi et remémoration du code. – L’expositio animae stoïcienne : médecine des passions
et degré de liberté. – La pénitence dans le christianisme primitif. – Le problème de
la réintégration. – La pénitence, un statut qui manifeste un état. – Significations de
l’exomologèse. – une vie en forme d’aveu, un aveu en forme de vie. – un rituel de
supplication – davantage que le modèle médical ou judiciaire, celui du martyre. –
Véridiction de soi et mortification de soi – De la publication de soi comme pécheur à la
verbalisation de soi : tentation et illusion.
Leçon du 6 mai 1981 ...................................................................................................123
Pratique de la véridiction dans les institutions monastiques du iVe-Ve siècle : les
Apophtegmata Patrum et les écrits de Cassien. – Le monachisme entre vie de pénitence et
existence philosophique. – Caractères de la direction de conscience antique. – Caractères
de la direction de conscience dans le monachisme : une obéissance indéfinie, formelle
et auto-référée ; humilité, patience et soumission ; inversion du rapport de verbalisation.
– Caractères de l’examen de conscience dans le monachisme : de l’actum à la cogitatio.
– Mobilité de la pensée et illusion. – Discrimen et discretio : aveu et origine de la pensée.
– Véridiction de soi, herméneutique de la pensée et sujet de droit.
Leçon du 13 mai 1981 .................................................................................................161
Caractères de l’exagoreusis au iVe-Ve siècle. – renonciation à soi. – Vérité du texte
et vérité de soi. – Affranchissement et ajustement de l’herméneutique du texte et de
l’herméneutique de soi dans le protestantisme. – illusion, évidence et sens (descartes et
Locke). – Illusion de soi sur soi et inconscient (Schopenhauer et Freud). – Juridification
de l’aveu dans la tradition ecclésiastique du iVe au Viie siècle. – Compénétration de
l’exagoreusis et de l’exomologèse dans les premières communautés monastiques et de
laïcs. – Caractères et origines de la pénitence tarifée : modèle monastique et modèle du
droit germanique. – sacrementalisation et institution de la confession obligatoire au Xiiie
siècle. – Juridification des rapports entre l’homme et Dieu. – Formes et significations de
l’aveu dans la confessio oris.
Leçon du 20 mai 1981 ..................................................................................................199
Juridification dans les institutions ecclésiastiques et politiques. – Du Dieu juge à l’État de
justice : souveraineté et vérité. – Aveu, torture et épreuve inquisitoire de la vérité. – Aveu,
torture et preuves légales. – Aveu, loi souveraine, conscience souveraine et engagement
punitif. – Auto-véridiction, évidence et dramaturgie pénale. – Hétéro-véridiction,
examen et psychiatrie légale. – rapporter l’acte à l’auteur : la question de la subjectivité
criminelle au XiXe siècle. – La monomanie et la constitution du crime comme objet
psychiatrique. – La dégénérescence et la constitution du criminel comme objet de la
défense sociale. – de la responsabilité à la dangerosité, du sujet de droit à l’individu
Véridiction de soi dans l’Antiquité païenne. – L’examen de conscience pythagoricien :
purification de soi et mnémotechnique. – L’examen de conscience stoïcien : gouvernement
de soi et remémoration du code. – L’expositio animae stoïcienne : médecine des passions
et degré de liberté. – La pénitence dans le christianisme primitif. – Le problème de
la réintégration. – La pénitence, un statut qui manifeste un état. – Significations de
l’exomologèse. – une vie en forme d’aveu, un aveu en forme de vie. – un rituel de
supplication – davantage que le modèle médical ou judiciaire, celui du martyre. –
Véridiction de soi et mortification de soi – De la publication de soi comme pécheur à la
verbalisation de soi : tentation et illusion.
Leçon du 6 mai 1981 ...................................................................................................123
Pratique de la véridiction dans les institutions monastiques du iVe-Ve siècle : les
Apophtegmata Patrum et les écrits de Cassien. – Le monachisme entre vie de pénitence et
existence philosophique. – Caractères de la direction de conscience antique. – Caractères
de la direction de conscience dans le monachisme : une obéissance indéfinie, formelle
et auto-référée ; humilité, patience et soumission ; inversion du rapport de verbalisation.
– Caractères de l’examen de conscience dans le monachisme : de l’actum à la cogitatio.
– Mobilité de la pensée et illusion. – Discrimen et discretio : aveu et origine de la pensée.
– Véridiction de soi, herméneutique de la pensée et sujet de droit.
Leçon du 13 mai 1981 .................................................................................................161
Caractères de l’exagoreusis au iVe-Ve siècle. – renonciation à soi. – Vérité du texte
et vérité de soi. – Affranchissement et ajustement de l’herméneutique du texte et de
l’herméneutique de soi dans le protestantisme. – illusion, évidence et sens (descartes et
Locke). – Illusion de soi sur soi et inconscient (Schopenhauer et Freud). – Juridification
de l’aveu dans la tradition ecclésiastique du iVe au Viie siècle. – Compénétration de
l’exagoreusis et de l’exomologèse dans les premières communautés monastiques et de
laïcs. – Caractères et origines de la pénitence tarifée : modèle monastique et modèle du
droit germanique. – sacrementalisation et institution de la confession obligatoire au Xiiie
siècle. – Juridification des rapports entre l’homme et Dieu. – Formes et significations de
l’aveu dans la confessio oris.
Leçon du 20 mai 1981 ..................................................................................................199
Juridification dans les institutions ecclésiastiques et politiques. – Du Dieu juge à l’État de
justice : souveraineté et vérité. – Aveu, torture et épreuve inquisitoire de la vérité. – Aveu,
torture et preuves légales. – Aveu, loi souveraine, conscience souveraine et engagement
punitif. – Auto-véridiction, évidence et dramaturgie pénale. – Hétéro-véridiction,
examen et psychiatrie légale. – rapporter l’acte à l’auteur : la question de la subjectivité
criminelle au XiXe siècle. – La monomanie et la constitution du crime comme objet
psychiatrique. – La dégénérescence et la constitution du criminel comme objet de la
défense sociale. – de la responsabilité à la dangerosité, du sujet de droit à l’individu
criminel. – La question de la subjectivité criminelle au XXe siècle. – Herméneutique du
sujet et signification du crime pour le criminel. – Accident, probabilité et indice de risque
criminel. – La véridiction du sujet, brèche du système pénal contemporain.
Entretien de Michel Foucault avec André Berten, 7 mai 1981 ....................................
235 Entretien de Michel Foucault avec Jean François et John de Wit, 22 mai 1981 .........
247 situation du cours
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235 Entretien de Michel Foucault avec Jean François et John de Wit, 22 mai 1981 .........
247 situation du cours
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