venerdì 20 dicembre 2013

Aut Aut n.360/2013: All’indice. Critica della cultura della valutazione








a cura di Alessandro Dal Lago
Alessandro Dal Lago Premessa. La (s)valutazione della ricerca
Valeria Pinto La valutazione come strumento di intelligence e tecnologia di governo
Antonio Banfi, Giuseppe De Nicolao Valutare senza sapere. Come salvare la valutazione della ricerca in Italia da chi pretende di usarla senza conoscerla
Claudio La Rocca Commisurare la ricerca. Piccola teleologia della neovalutazione
Francesca Coin La valutazione dell’utilità e l’utilità della valutazione
Francesco Sylos Labini Una nota su valutazione e conformismo
Roberto Ciccarelli La bolla formativa è esplosa. Educazione, disciplinamento e crisi del soggetto imprenditore
Massimiliano Nicoli Come le falene. Precarietà e pratica della filosofia
MATERIALI
Michel Foucault
 Che cos’è un regime di verità? [1980]
INTERVENTI
Mario Novello
 Diagnosi psichiatrica e giustizia

giovedì 19 dicembre 2013

Michel Foucault - La Société punitive- Gallimard, Fr, 2013



Michel Foucault


La Société punitive
Cours au Collège de France (1972-1973)

Gallimard - Seuil
Hautes Etudes
2013


« Malheureusement, quand on enseigne la morale, quand on fait l’histoire de la morale, on explique toujours lesFondements de la métaphysique des mœurs et on ne lit pas [Colquhoun], ce personnage fondamental pour notre moralité. Inventeur de la police anglaise, ce marchand de Glasgow […] s’installe à Londres, où des sociétés de navigation lui demandent en 1792 de résoudre le problème de la surveillance des docks et de la protection de la fortune bourgeoise. » [C’est un] problème essentiel […] ; pour comprendre le système de moralité d’une société, il faut poser la question : Où est la fortune ? L’histoire de la morale doit s’ordonner entièrement à cette question de la localisation et du déplacement de la fortune. »
Michel Foucault


Prononcées au Collège de France au premier trimestre 1973, ces treize leçons sur la « société punitive » examinent la façon dont se sont forgés les rapports de la justice et de la vérité qui président au droit pénal moderne, et questionnent ce qui les lie à l’émergence d’un nouveau régime punitif qui domine encore la société contemporaine.
Ce cours, supposé être préparatoire à l’ouvrage qui paraîtra en 1975, Surveiller et Punir, se déploie tout autrement, au delà du système carcéral, englobant l’ensemble de la société à économie capitaliste, au sein de laquelle s’innove une gestion particulière de la multiplicité des illégalismes et de leur imbrication.
Cet essai à part entière brasse un matériel historique jusque-là inédit, concernant l’économie politique classique, les Quakers et « Dissenters » anglais, leur philanthropie ? eux dont le discours introduit le pénitentiaire dans le pénal ?, puis la moralisation du temps ouvrier. Michel Foucault livre par sa critique de Hobbes une analyse de la guerre civile, qui n’est pas la guerre de tous contre tous mais une « matrice générale » permettant de comprendre le fonctionnement de la stratégie pénale dont la cible est moins le criminel que l’ennemi intérieur.
La Société punitive se place parmi les grands textes qui relatent l’histoire du capitalisme. Nos sciences de l’homme se révèlent être, au sens nietzschéen, toujours des « sciences morales ».

venerdì 13 dicembre 2013

Luciana Parisi e Tiziana Terranova: intervista a due voci su "Masse, potere e post-democrazia nel XXI secolo" @ Obsolete Capitalism


Intervista a Luciana Parisi e Tiziana Terranova su "Masse, potere e postdemocrazia nel XXI secolo" a cura dei blog Obsolete Capitalism e Rizomatika. Intervista raccolta l'11 dicembre 2013. 

Qui potete leggere le interviste in lingua inglese precedentemente pubblicate:

E' stato istituito un sito (QUI) dove si possono leggere tutte le interviste in italiano. Di seguito, invece, trovate le precedenti interviste pubblicate in lingua italiana sul blog Obsolete Capitalism:



Masse, potere e postdemocrazia nel XXI secolo

'Fascismo di banda, di gang, di setta, di famiglia, di villaggio, di quartiere, d’automobile, un Fascismo che non risparmia nessuno. Soltanto il micro-Fascismo può fornire una risposta alla domanda globale: “Perchè il desiderio desidera la propria repressione? Come può desiderare la propria repressione?'
—Gilles Deleuze, Fèlix Guattari, Mille Piani, pg. 271

    Sul micro-fascismo 
    Obsolete Capitalism Partiamo dall’analisi di Wu Ming, esposta nel breve saggio per la London Review of Books intitolato “Yet another right-wing cult coming from Italy”, che legge il M5S e il fenomeno Grillo come un nuovo movimento autoritario di destra.  Come è possibile che il desiderio di cambiamento di buona parte del corpo elettorale sia stato vanificato e le masse abbiano di nuovo anelato - ancora una volta - la propria repressione ? Siamo fermi nuovamente all’affermazione di WilhelmReich: sì, le masse hanno desiderato, in un determinato momento storico, il fascismo. Le masse non sono state ingannate, hanno capito molto bene il pericolo autoritario, ma l’hanno votato lo stesso. E il pensiero doppiamente preoccupante è il seguente: i due movimenti populisti autoritari, M5S e PdL, sommati insieme hanno più del 50% dell’elettorato italiano. Le tossine dell’autoritarismo e del micro-fascismo perché e quanto sono presenti nella società italiana contemporanea ?
Luciana Parisi Del microfascismo bisogna innanzitutto capire se è un desiderio di repressione, e quindi di negatività, o se si tratta in termini cibernetici di opporre l’ordine all’entropia,  oppure se parliamo di una disseminazione dell’entropia. Capire cos’è l’entropia è fondamentale per capire questa nozione di microfascismo. E’ facile assumere che l’entropia sta all’informazione come il caos sta all’ordine, o come l’istinto di morte  alla vita o alla capacità auto-organizzativa di un corpo (corpo sociale, biologico, culturale). Innanzitutto, bisogna dunque ripensare alla tesi termodinamica su cui si basa l’idea di microfascismo. Secondo la tesi termodinamica, il microfascismo è una distribuzione impazzita del desiderio di distruzione, piuttosto che di costituzione (appunto da molti pensata come  positiva in un movimento politico). Questo divario tra costituzione e distruzione su cui si basa la concezione del microfascismo a cui ti riferisci è a dir poco limitante e quando applicata a movimenti politici rischia di non vedere o non considerare le direzioni del microfascismo in termini di tensione tra energia e informazione. Quindi non in termini di desiderio di morte portato dall’informazione, ma invece della produzione di nuove dinamicità che non rispecchiano il punto di vista di un soggetto che vuole reprimersi. Invece, il microfascismo potrebbe essere concepito come produzione di nuove dinamicità, anti-entropie, che non si rispecchiano nell’energia organica. Penso quindi che bisogna partire da questa domanda: di che tipo di entropia stiamo parlando, e cosa ci può  dire dei movimenti politici ad un altro livello di analisi? Quindi microfascismo non significa  necessariamente desiderio di repressione. Come anche Deleuze e Guattari hanno anticipato, la questione del desiderio è tutt’altro che risolta in una specie di schema freudiano basato su una concezione termodinamica del principio di piacere. Invece di essere solo un desiderio di repressione, il microfascismo  o la forza entropica dell’assoggettamento, distribuito sul piano sociale – e inscritto nella geologia della terra oltre che dell’umano – diviene piuttosto parte di una accelerazione di desiderio – un nuovo tipo di nichilismo - che restituisce potenza ai soggetti neutralizzati dal potere.  Invece di ricorrere ai luoghi familiari della critica – in cui la tecnologia è quasi sempre sinonimo di tecnocrazia – c'è un altro modo, forse, per capire questo microfascismo per cui le forze di desiderio di repressione sono e possono essere anche liberatorie di un soggetto storicamente neutralizzato dalle forme di organizzazioni politiche di appartenenza a un partito il cui programma politico è un copione. Questa accelerazione del desiderio si può definire sia nei termini di macchina da guerra futurista sia nella sua sovrapposizione con la macchina da guerra di Deleuze e Guattari in quanto la velocità diventa attributo determinante di una qualità politica che bisogna capire nella sua complessità. 

Tiziana Terranova Luciana ha giustamente posto l'accento sulla necessità di ripensare che cosa Deleuze e Guattari intendessero con il concetto di microfascismo, su quale concezione del rapporto tra energia desiderante e informazione si fondi, e su come sia importante non collassare il microfascismo con il fascismo tout court. Forse è per questo che l'interpretazione del grillismo di Wu Ming, fin dall'inizio mi ha lasciato fredda. Penso che il discorso sia diverso per Forza Italia e i berlusconiani, nella misura in cui, a mio avviso, c'è stato un transfert molto più diretto della figura di Mussolini su quella di Berlusconi, anche con tutto un confluire di apparati, logge e organizzazioni neo-fasciste su questa figura. E però allo stesso tempo  questo non significa negare che ci sono elementi autoritari e microfascisti in gioco nel Movimento 5 stelle. La rabbia di Grillo, dei 5 stelle, di coloro che li hanno votati forse può essere vista come microfascista nel senso che Luciana vuole dare al termine: un nichilismo che restituisce potenza agli assoggettati dal potere. Tutta questa rabbia è assolutamente giustificata. E come potrebbe essere altrimenti dopo decenni di televisione e stampa che, malgrado le censure e i controlli, hanno riportato abbastanza fedelmente tutti gli scandali, le corruzioni, le connivenze, le complicità nell'enorme estrazione di ricchezza che si sta operando oggi in Italia, ma anche (è questo è spesso oscurato dai media nazionali) in Europa e nel resto del mondo. Nella retorica, nello stile verbale di molti esponenti del movimento c'è questa rabbia e questo disprezzo, e questo è quello che agli occhi di molti, soprattutto il centrosinistra democratico, li rende fascisti. Sergio Bologna è stato uno dei primi a sostenere che il movimento 5 stelle è figlio del giornalismo investigativo di un programma come Report, dei libri sulla casta etc. Ma tutto ciò avrebbe dovuto spingere secondo i più affermati opinionisti 'democratici' l'elettorato nelle braccia dell'unica alternativa, il riformismo democratico, in pratica un neoliberismo di sinistra. Molte energie sono state investite da quell'area politica nel definire come estremisti o fascisti tutto ciò che sfugge o eccede la loro impostazione politica. E tuttavia, il riformismo democratico è stato ripetutamente battuto alle urne ed ecco le accuse di fascismo e populismo nella stampa e nei media di quell'area, che non risparmiano queste accuse a nessuna forma di politica che li eccede (pensiamo alla demonizzazione, nel senso che Stanley Cohen ha dato al termine, dei centri sociali, del movimento No Tav, delle occupazioni, delle proteste ambientali etc). Certamente  c'è un tratto che Grillo e il pubblico del blog ha assorbito dai media mainstream, cioè il ritenere la corruzione un problema italiano, nel pensare che gli 'altri' (i 'civili', cioè i tedeschi, gli inglesi, gli scandinavi, gli americani) mandano i corrotti in galera, che altrove esiste una 'buona' politica. In questo non si è emancipato dal discorso liberale di giornali come La Repubblica che continuamente pongono come modello dell'Italia i paesi 'normali' del Nord del mondo. Ma non mi trovo d'accordo sul modo in cui il Movimento 5 stelle è stato messo nella casella dei 'cattivi' o degli 'incompetenti' al potere, appunto espressione di un microfascismo generalizzato che confluisce nel corpo e nella voce del leader. A me  sembra che questo sia un cercare di ricondurre tutto quello che è nuovo a qualcosa di già visto e scontato. Il Movimento 5 stelle ha espresso questa rabbia diffusa contro la corruzione identificata non con quella o l'altra parte politica ma con tutto lo spettro politico parlamentare tout court. E' andato alle lezioni non per fare mediazioni, ma per prendere il potere e rifondare la politica. Ha tentato cioè una specie di hack della politica parlamentare, a cui i movimenti sociali hanno rinunciato da anni nella convinzione della necessità di fondare nuove istituzioni che non passino attraverso i meccanismi classici della rappresentazione. Questo hack, questa rottura del meccanismo, per fortuna o sfortuna, non lo possiamo dire, non gli è riuscita, e quindi piuttosto che rientrare nella mediazione, hanno portato una specie di guerriglia in parlamento. Io trovo, per esempio, l'episodio del senatore grillino, che è riuscito a inserire l'emendamento per l'abolizione del reato di clandestinità, geniale. Partendo da una totale sfiducia nei partiti esistenti, gli eletti del M5S - che sono andati al potere con il mandato di destituire, il tutti a casa è un tema comune - si muovono come una squadra di calcio, aprendo un varco nelle difese serrate del nemico, reso disorientato per qualche giorno dall'effetto dirompente della strage di migranti nel mare di Lampedusa, segnando un goal. La sconfessione di Grillo, invece, il suo appello alla popolarità e al programma, agli 'italiani' che non voterebbero mai un partito che ha nel suo programma l'abolizione del reato di clandestinità, nella continuità delle sue affermazioni sulla politica della migrazione, dimostra quali sono gli elementi di esclusione nella figura di cittadino al quale si riferisce. Grillo parla di cittadino italiano, i cui interessi sono opposti a quelli di due gruppi sociali: in primis a politici e impiegati pubblici, ma anche, in maniera meno esplicita, agli immigrati. I parassiti legati alla macchina statale da un lato, i flussi incontrollati migratori dall'altro. Ma questo mettere sullo stesso piano politici, impiegati pubblici e migranti propone un’immagine del cittadino che si sovrappone a quella del 'datore di lavoro'. Nel berlusconismo, il datore di lavoro che è il proprietario di denaro o capitale che irrora il corpo sociale di lavoro e ricchezza, è assolutizzato nella figura di Berlusconi. Grillo disperde questa potenza del datore di lavoro distribuendola sulla figura di un cittadino italiano che lavora e paga le tasse e quindi diventa il datore di lavoro di politici e impiegati pubblici, e guarda all'immigrato in termini di vantaggi o svantaggi che questa forza lavoro comporta.  Per questo può attingere anche all'elettorato della Lega, ma senza riprenderne in maniera centrale i tratti più truculenti. Un altro elemento del M5S che si potrebbe definire autoritario senza dubbio è il rapporto con il 'programma' e con la 'rete'. Il blog di Grillo ha costituito negli anni un pubblico a cui ha raccontato quotidianamente la corruzione della politica e del capitalismo italiano proponendo, invece, una visione alternativa di un futuro ecologico e tecnologico, un futuro a tecnologia verde, decentralizzata, basato sul coinvolgimento attivo dei 'cittadini'. Non a caso Grillo ha sostenuto le vertenze in Campania contro l'inceneritore, per la bonifica dei territori avvelenati dai rifiuti tossici, e il movimento No Tav. Ma pare che l'unico modo di raggiungere questo obbiettivo per il M5S è sottoporsi alla disciplina rigida del programma deciso dalla rete. La rete diventa un soggetto unico le cui differenze e opposizioni possono essere risolte tramite votazioni, a sua volta calibrata dagli algoritmi per evitare infiltrazioni. I deputati, idealmente, dovrebbero essere, per lui, come le maschere di Anonymous: pure espressioni di una volontà generale espressa dalla rete. In questo senso, la rete diventa il popolo, la cui volontà non può che essere unitaria, e i parlamentari 5 stelle i suoi avatar. Il risultato è un appiattimento sull'esistente, un piegarsi all'opinione maggioritaria, un soffocamento dell'invenzione e del dissenso. E pur tuttavia tutto ciò non equivale a rappresentarlo univocamente come un movimento autoritario di destra, semmai è, e continua ad essere, un contenitore abbastanza caotico che la voce di Grillo non riesce a rappresentare totalmente e a contenere. Insomma a me sembra che il Movimento 5 stelle rappresenti un insieme di differenze rispetto alla composizione della sinistra che in alcuni casi diventa piena opposizione e quindi conflitto (sulla questione della migrazione, sul rapporto pubblico/privato etc) e in altri casi invece sovrapposizione. Ma non è questo il problema politico principale, per coloro che non vogliono rimanere intrappolati nell'opposizione bipolare (a cui l'Italia aspira nel nome della governabilità), la composizione (non la mediazione) delle differenze? Per essere chiari, nella mediazione ognuno cede qualcosa e si arriva a un compromesso 'mediano', la composizione richiede invece l'attivazione dell'invenzione, l'introduzione di elementi nuovi, lavora sul nichilismo microfascista in modo trasformativo, cioè costituente.


Leggi qui l'intervista completa

Luciana Parisi, italiana, vive e lavora a Londra. E' Reader in Cultural Studies al Goldsmiths College, University of London (UK) dove gestisce il PhD programme al Centre for Cultural Studies. La sua ricerca analizza i rapporti tra scienza e filosofia, cibernetica e informazioni, tecnologia e politica per formulare una critica del capitalismo e, al tempo stesso, indagare le reali possibilità di cambiamento.  Durante gli anni Novanta del secolo scorso ha lavorato con il  Cybernetic Culture Research Unit a Warwick (Uk) e ha scritto alcuni saggi in collaborazione con Steve Goodman (conosciuto nel mondo della musica come "dominus" del dubstep con il nickname di  Kode 9). Nel 2004 ha pubblicato con MIT Press il libro Abstract Sex: Philosophy, Biotechnology and the Mutations of Desire, dove ha descritto l'impasse critico tra le nozioni di corpo, sessualità, "genere" e lo stato attuale degli studi di scienze e tecnologie. Il suo ultimo lavoro sui modelli architettonici e il ruolo degli algoritmi nel design interattivo e in architettura è Contagious Architecture. Computation, Aesthetics and Space (MIT Press, Usa, novembre 2013). 

Tiziana Terranova, italiana, vive e lavora a Napoli. E' ricercatrice contemporanea, docente di  “Studi culturali e media' e “Teorie culturali  e nuovi media” presso l'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'. Dopo essersi laureata presso la facoltà di Lingue e Letterature Straniere del Dipartimento di Studi Americani, Culturali e Linguistici dell’Università di Napoli prosegue le sue ricerche su media, studi culturali e nuove tecnologie, spinta dalla passione per questo settore. L'approfondimento di tali tematiche avverrà in Inghilterra dove consegue un master in “Communications and Technology” presso la Brunel University. Consegue successivamente il titolo accademico di dottore di ricerca in Media and Communications presso il Goldsmiths’ College. Tiziana Terranova si occupa all'epoca di sottoculture tecnologiche, di cyberpunk, e a metà degli anni ’90 redige una delle prime tesi di dottorato su internet sui newsgroups e la cultura tecno californiana. Altra esperienza importante per il suo percorso intellettuale si svolge a Londra, presso il Dipartimento di Cultural Studies dell’Università di “East London”, dove fonda e dirige insieme a Helene Kennedy uno dei primi corsi di Multimedia, partecipando in prima persona all’avvio dei corsi universitari in “Media e New Media Studies”. I suoi attuali  interessi riguardano la cultura digitale e i fenomeni che attorno ad essa si sviluppano. Di assoluta rilevanza internazionale il suo libro Culture Network, edito in Italia, nel 2006, da Il Manifesto edizioni. L'ultimo suo saggio s'intitola 'Capitalismo cognitivo e vita neurale' ed è apparso nel maggio 2013  all'interno dell'e.book 'Lo stato della mediazione tecnologica' a cura di Giorgio Griziotti (Speciale Ipermedia - Alfabeta edizioni).




domenica 8 dicembre 2013

Pier Aldo Rovatti: Restituire la soggettività. Lezioni sul pensiero di Franco Basaglia - Edizioni alpha beta Verlag, Merano, 2013









Restituire la soggettività. Lezioni sul pensiero di Franco Basaglia,
 Edizioni alpha beta Verlag,
 Merano, 2013

Questo libro presenta al lettore le lezioni sul pensiero di Franco Basaglia che Rovatti ha tenuto a Trieste nell’ambito di un corso di Filosofia teoretica. Ne risulta – con un linguaggio di grande chiarezza – che Basaglia ha costruito lungo il suo straordinario percorso, da Gorizia a Trieste, una riflessione decisamente originale che lo colloca nella grande storia del pensiero contemporaneo.
Questa riflessione, che attraversa tutta la sua pratica, si condensa sul problema della soggettività, e più specificamente su cosa significhi e come sia possibile “restituire” la soggettività a coloro, come gli ex internati in manicomio, ai quali è stata sottratta (ma poi anche a ciascuno di noi nelle precarie condizioni culturali e sociali in cui attualmente versiamo).
Il libro non ha la forma consueta del saggio: piuttosto è una narrazione critica a caldo nella quale si distende un dialogo continuo con gli studenti e con una serie di testimoni eccellenti (Mario Colucci, Peppe Dell’Acqua, Giovanna Gallio, Maria Grazia Giannichedda, Franco Rotelli, Ernesto Venturini, Michele Zanetti) che portano il loro contributo di esperienze e di intelligenza intervenendo alle lezioni.
Dal risvolto di copertina:
“… era, tra l’altro, un periodo di agitazione nell’università contro le proposte del ministro Gelmini e io aderii volentieri all’iniziativa di tenere una delle lezioni fuori dall’aula: il 5 novembre 2008, in piazza Unità a Trieste, attorniato dagli studenti e anche da cittadini incuriositi, trattai il tema centrale del corso, cioè la soggettività. O meglio: cercai di indicare come Basaglia intendesse il suo fondamentale impegno teorico e pratico di ‘restituire la soggettività’ a coloro che, internati in manicomio, ne erano stati completamente privati. Intorno al significato di questa frase, alle implicazioni che aveva, ai problemi di ordine filosofico e politico che apriva, girava in realtà tutto il corso e mi è parso evidente che essa dovesse diventare il titolo di questo libro. Che non è un libro di semplice ricostruzione e tanto meno di santificazione dell’opera di Basaglia, è piuttosto il tentativo di dare visibilità a un nodo di problemi che restano con evidenza attualissimi…”

Christian Laval, Pierre Dardot: La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista @ Derive e Approdi, Roma, 2013



Critica della razionalità neoliberista

La nuova ragione del mondo


Che il capitalismo non sia affatto onnisciente e in grado di autoregolarsi è, almeno dalla crisi iniziata nel 2007, sotto gli occhi di tutti. Questo libro dimostra, però, che il caos economico, finanziario e politico di cui siamo testimoni nell’ultimo decennio deriva da una precisa razionalità, sotterranea, diffusa e globale. Si tratta della razionalità del neoliberismo, che oggi arriva a coincidere con quella del capitalismo stesso.

Il libro di Pierre Dardot e Christian Laval – ormai opera di riferimento nel dibattito internazionale – è la prima esaustiva analisi del neoliberismo inteso come razionalità economica, politica e di governo. Con un approccio a cavallo tra diverse discipline (economia politica, filosofia, sociologia del lavoro) i due autori ricostruiscono le premesse teoriche delle dottrine economiche e politiche liberali ripercorrendo le molteplici strade intraprese dal liberalismo per imporsi come vera e propria «ragione del mondo». Nell’erigere la concorrenza a norma universale dei comportamenti, nel fagocitare ogni ambito dell’esistenza umana, del produrre nuove dinamiche di assoggettamento, la razionalità neoliberista finisce con l’erodere le premesse della stessa democrazia. Per questo, solo la comprensione e l’attenta analisi di questa specifica razionalità – dai suoi discorsi sulla libertà individuale alle sue teorie sull’autonomia dei mercati, dalle sue pratiche di controllo a suoi dispositivi di governo dell’individuo attraverso il debito – può consentire di aprire una strada per un altro avvenire.
«Di grandissima erudizione, questo libro è un invito urgente a spingere la critica teorica e sociale dell’ordine esistente ben al di là delle analisi correnti» Le monde diplomatique.
«Per capire il dibattito il libro di Pierre Dardot e Christian Laval sulla “società liberista” offre importanti strumenti di analisi. Una summa di ricerche che sono storia delle idee, filosofia e sociologia» Le monde.
«Un’opera che segnerà uno spartiacque tra i saggi dedicati al neoliberismo» Marianne.
«Un libro che casca a fagiolo di fronte alla crisi che attraversiamo»Le spectacle du monde.
«La nuova ragione del mondo è un libro di teoria, di economia e di narrazione storica. Il suo interesse sta anche nell’essere molto accessibile» Politis.


Dall’introduzione all’edizione italiana
Com’è possibile che nonostante le ripercussioni catastrofiche cui hanno portato le politiche neoliberiste, queste ultime siano sempre più attive, al punto da precipitare interi Stati e società in crisi politiche e regressioni sociali sempre peggiori? Com’è possibile che, negli ultimi trent’anni, queste stesse politiche si siano sviluppate e approfondite senza aver incontrato resistenze sufficienti a metterle in crisi?
La risposta non può ridursi ai semplici aspetti «negativi» delle politiche neoliberiste, ovvero alla distruzione programmata delle regolamentazioni e delle istituzioni.
Il neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività. Detto altrimenti, con il neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi. Il neoliberismo definisce una precisa forma di vita nelle società occidentali e in quelle società che hanno scelto di seguire le prime sul cammino della cosiddetta “modernità”. Questa norma impone a ognuno di vivere in un universo di competizione generalizzata, prescrive alle popolazioni di scatenare le une contro le altre una guerra economica, organizza i rapporti sociali secondo un modello di mercato, arriva a trasformare perfino l’individuo, ormai esortato a concepire se stesso come un’impresa.
Da pressoché un terzo di secolo, questa norma esistenziale presiede alle politiche pubbliche, governa le relazioni economiche mondiali, trasforma la società e rimodella la soggettività. Le circostanze di un simile successo normativo sono state descritte di frequente. A volte privilegiando l’aspetto politico (la conquista del potere da parte delle forze neoliberiste), a volte quello economico (l’ascesa del capitalismo finanziario globalizzato), altre l’aspetto sociale (l’individualizzazione dei rapporti sociali a scapito delle forme di solidarietà collettiva, l’estrema polarizzazione tra ricchi e poveri), altre ancora quello soggettivo (la comparsa di una nuova tipologia di soggetto, lo sviluppo di nuove patologie psichiche). Si tratta di dimensioni complementari alla nuova ragione del mondo. Con questo dobbiamo intendere che siamo di fronte a una ragioneglobale nel duplice senso del termine: una ragione che di colpo diventa valida su scala mondiale e una ragione che, lungi dal limitarsi alla sfera economica, tende a totalizzare, cioè a “fare mondo”, con un proprio specifico potere di integrazione di tutte le dimensioni dell’esistenza umana. La ragione del mondo è anche, contemporaneamente, una «ragione-mondo».

martedì 26 novembre 2013

Foucault à l'épreuve des études postcoloniales @ Université Paris-Est Créteil, vendredi 13 décembre 2013


Bonjour,

La prochaine séance du séminaire Actualités Foucault aura lieu le vendredi 13 décembre 2013, de 14h à 17h, à l'Université Paris-Est Créteil, bâtiment i, 2e étage, salle 233 (métro ligne 8, Créteil Université). 

Le thème de la séance sera « Foucault à l'épreuve des études postcoloniales », avec la participation de Alain Brossat, Orazio Irrera et Martina Tazzioli.

Au plaisir de vous rencontrer bientôt,

Cordialement,


Frédéric Gros, Daniele Lorenzini, Ariane Revel, Arianna Sforzini

lunedì 25 novembre 2013

Lapo Berti: intervista su Masse, potere e post-democrazia nel XXI secolo @ Obsolete Capitalism blog

    Sul micro-fascismo
    Obsolete Capitalism Partiamo dall’analisi di Wu Ming, esposta nel breve saggio per la London Review of Books intitolato “Yet another right-wing cult coming from Italy”, che legge il M5S e il fenomeno Grillo come un nuovo movimento autoritario di destra.  Come è possibile che il desiderio di cambiamento di buona parte del corpo elettorale sia stato vanificato e le masse abbiano di nuovo anelato - ancora una volta - la propria repressione ? Siamo fermi nuovamente all’affermazione di WilhelmReich: sì, le masse hanno desiderato, in un determinato momento storico, il fascismo. Le masse non sono state ingannate, hanno capito molto bene il pericolo autoritario, ma l’hanno votato lo stesso. E il pensiero doppiamente preoccupante è il seguente: i due movimenti populisti autoritari, M5S e PdL, sommati insieme hanno più del 50% dell’elettorato italiano. Le tossine dell’autoritarismo e del micro-fascismo perché e quanto sono presenti nella società italiana contemporanea ?
Lapo Berti: Democrazia vuota 
Da lungo tempo abbiamo smesso di vivere in regimi politici che possano definirsi autenticamente democratici in base alle modalità con cui i cittadini sono posti in grado di eleggere i loro rappresentanti e controllarne l'operato. Questo significa che ai cittadini è ormai, di fatto, negata la possibilità di essere protagonisti dei processi attraverso cui si prendono le decisioni rilevanti per la collettività. In taluni casi estremi, come quello italiano, ai cittadini è sottratto anche il potere formale di scegliere i propri rappresentanti, che dovrebbe essere il tratto distintivo della democrazia rappresentativa ovvero un valore politico inalienabile. Nella maggior parte dei casi, invece, tale potere è formalmente rispettato, ma il potere effettivo è stabilmente trasferito in altre mani e ai cittadini rimane aperta esclusivamente la possibilità di partecipare a quella messa in scena dell'immaginario democratico che sono le elezioni politiche, in cui, di fatto, si celebra il contrario di quello che comunemente si ritiene, ovvero la rinuncia, per un periodo di almeno cinque anni, a esercitare qualsiasi forma di controllo sugli obiettivi perseguiti dagli eletti e sui modi di realizzarli. Probabilmente, nessun regime democratico è stato mai effettivo, realizzando un efficace "potere del popolo", se non in fasi eccezionali e allo stato nascente. Si può tuttavia affermare che, in certi periodi, che variano da paese a paese, la delega agli eletti è stata esercitata con modalità che rappresentavano un compromesso accettabile rispetto a un effettivo esercizio del potere popolare che fosse in grado di determinare con sufficiente precisione gli obiettivi dell'azione pubblica e l'esercizio del potere di governo. Non è più così in nessuno dei paesi che si definiscono democratici.
Il ritorno delle élite 
Ormai da lungo tempo, non solo in Italia, il potere di governo è stato stabilmente requisito da gruppi elitari che derivano la loro forza dal possesso di un potere dominante in ambito economico, politico e sociale. Tali gruppi, generalmente interconnessi e caratterizzati da una considerevole scambiabilità delle posizioni che contribuisce alla loro stabilità nel tempo, formano un'oligarchia che ha nella finanza il proprio strumento fondamentale nonché il proprio legame fondante.
Per capire fino in fondo la portata di questo processo, è necessario rendersi conto che la globalizzazione non è il risultato spontaneo della dinamica dei mercati, come spesso si sostiene, ma è l'approdo consapevolmente perseguito dalle élite economiche mondiali per sottrarsi alle possibili interferenze della politica, ai vincoli e ai limiti posti dalle giurisdizioni nazionali, in cui si esprime il vecchio e obsoleto potere degli stati. La globalizzazione è, prima di tutto, la creazione di uno spazio esente dalla politica e dal diritto, in cui l'oligarchia finanziaria può liberamente dispiegare i suoi disegni di ricchezza e di potere. La globalizzazione è il risultato estremo di una guerra che si è combattuta lungo tutto il novecento tra chi voleva costruire un controllo della politica, in nome e per conto della collettività, sul mondo dell'economia e della finanza e le élite economiche che perseguivano con energia e pervicacia il ritorno al mondo pre-crisi del laissez-faire. La cesura era stata rappresentata dal New Deal rooseveltiano e dal trentennio del compromesso socialdemocratico, seguito alla seconda guerra mondiale e ispirato alla dottrina keynesiana. Il tentativo era quello di rendere possibile la convivenza fra democrazia e capitalismo, facendo dello stato il regolatore di ultima istanza dei conflitti sociali attraverso lo strumento del welfare pubblico. Fin dall'inizio, questa svolta, imposta dal trauma della Grande crisi, era stata percepita, almeno da una parte delle élite capitalistiche mondiali, come una deriva pericolosa, in grado di mettere a repentaglio la sopravvivenza del sistema capitalistico. E fin da subito erano stati posti in essere progetti di revanche, concretizzatisi con il trentennio neo-liberale e culminati nel grandioso progetto della globalizzazione.
Questo è il risultato, oggi confermatosi a livello globale con la formazione di un'oligarchia globale occulta, di un lungo processo che ha visto la formazione e l'affermazione del potere delle élite in tutti gli ambiti della vita sociale. Questo processo, di cui non mancano i segni lungo tutto il periodo che ha visto diffondersi la democrazia in tutto il mondo, ha avuto inizio in concomitanza con la prima grande ondata di democratizzazione che si è avuta come reazione alla crisi del '29, nella misura in cui questa fu percepita come la chiara manifestazione dei limiti intrinseci al capitalismo del laissez-faire. Dal momento in cui fu chiaro che i vertici del capitalismo mondiale, a partire da quelli americani, erano sotto attacco, hanno preso forma iniziative volte a realizzare una linea di resistenza contro le "eccessive" pretese della democrazia ovvero contro il progetto di porre sotto controllo l'iniziativa capitalistica, soprattutto quella incarnata nelle grandi organizzazioni del capitalismo industriale e, soprattutto, finanziario.
In tutto l'occidente i partiti politici sono stati risucchiati dal processo di penetrazione sociale delle élite e si sono trasformati in gangli del potere elitario, trasformandosi essi stessi in potenti élite, depositarie del potere conferito, nelle democrazie rappresentative, dal voto dei cittadini, e abilitate a esercitare il potere di governo per conto e nell'interesse delle élite capitalistiche in cambio di una partecipazione al potere economico e al godimento della ricchezza che esso maneggia.
La degenerazione dei sistemi democratici è stata prodotta e sospinta dall'assoggettamento dei gruppi dirigenti dei partiti alle strategie delle élite economiche. I partiti, anche quelli popolari, di massa, si sono rivelati permeabili, attraverso i loro gruppi dirigenti, al potere economico e finanziario. La corruzione si è installata stabilmente nel panorama politico, quale strumento di perversione dei meccanismi democratici in favore degli interessi delle élite dominanti.
La risposta dei cittadini ha assunto varie forme. La principale è stata quella di un allontanamento dal voto, sempre più percepito come un atto inutile se non addirittura ridicolo di fronte all'impermeabilità di un mondo politico divenuto del tutto autoreferenziale. Si tende, generalmente, a considerare lo sciopero del voto come un allontanamento dalla politica. Non è detto. Può essere anche il prodotto di una consapevolezza politica superiore alla media che più rapidamente e più nettamente sfocia nello scetticismo. Per il funzionamento della democrazia il risultato non cambia. Quando si comincia a votare con i piedi, perché non c'è più la speranza di far udire la propria voce, vuol dire che qualcosa si è irrimediabilmente rotto nel meccanismo della rappresentanza. E quando, com'è nel caso delle ultime elezioni italiane, l'astensione sfiora la metà degli aventi diritto vuol dire che la rottura è grave e che è assai improbabile che sia reversibile nel breve periodo.
La seconda reazione è ancora più insidiosa, perché tende a trasformare e addirittura a snaturare l'intero ethos democratico. È la risposta populista, che assume sempre connotati conservatori e antidemocratici, se non reazionari, anche quando le sue radici si allungano nel terreno della sinistra. Il populismo diventa una prospettiva praticabile quando si crea un vuoto incolmabile nella relazione fra le aspettative, i bisogni, dei cittadini e la vita politica che trova espressione nell'astensione dal voto, nella rinuncia a partecipare a quello che viene ormai percepito come un rituale vuoto: la delega ai rappresentanti del popolo. Il populismo si fa strada allorché i cittadini perdono la speranza di poter essere protagonisti della vita democratica e si rifugiano nella ricerca di un surrogato che rappresenti le loro aspirazioni e che generalmente assume le sembianze di una figura salvifica,di un personaggio che s'impone per le sue capacità di comunicazione, esaltate o addirittura costruite dai mass media.
In Italia abbiamo oggi due populismi, molto diversi in superficie, ma sostanzialmente omogenei dal punto di vista delle pulsioni che li alimentano e delle conseguenze sociali e politiche che provocano. Sono entrambi figli della crisi della politica novecentesca, fondata sulla capacità dei grandi partiti di massa di rispecchiare e rappresentare la composizione sociale generata dal fordismo. I partiti tradizionali si sono trasformati in senso oligarchico, sono diventati autoreferenziali, rivolti alla riproduzione di una classe dirigente inamovibile. Quel più conta, gli interessi dei diversi gruppi sociali sono passati in secondo piano, sostituiti da una fitta rete di rapporti clientelari. È venuta meno, in larghi strati della popolazione, la fiducia che dai partiti possa venire la soluzione dei problemi sociali. I riti della politica politicante sono divenuti per i più un gioco astruso. Si è andati alla ricerca di scorciatoie, di soluzioni dirette e semplificate. Era pronto il terreno per l'avvento dei taumaturghi, con la finzione di un rapporto diretto con il popolo e con la disponibilità a farsi dettare l'agenda da quello che si muove nella sua pancia, attraverso il gioco dei sondaggi o l'illusione della democrazia via web. Sotto questo profilo, Grillo e Berlusconi sono identici. Paradossalmente, ambedue, con il trucco più antico del mondo, hanno intercettato, in mezzo a paure e rabbie primordiali, una volontà effettiva di cambiamento, di modernizzazione del paese, ma l'hanno piegata a fini di affermazione personale. Di impulsi originariamente animati da uno spirito riformatore hanno fatto gli strumenti di un'operazione di conservazione, intrappolandoli nel recinto dei populismi e nell'attesa messianica dell'uomo solo che salva e risolve.
Una qualche spinta verso esiti populistici è probabilmente insita nel tipo di società che sono state forgiate dai processi di globalizzazione. Il disagio che afferra milioni di persone nel momento in cui percepiscono che la loro vita non dipende più soltanto da relazioni tutto sommato di vicinato, ma da quello che fanno e decidono milioni di sconosciuti sparsi nei luoghi più diversi e lontani del pianeta, l'angoscia che ne deriva rispetto a un destino di cui non ci sente più padroni perché sono venuti meno gli strumenti con i quali pensavamo/ci illudevamo di controllarlo e che appare minacciato da forze esterne e oscure, la sensazione d'impotenza che si prova di fronte a un mondo fattosi troppo complesso: tutte queste pulsioni confluiscono in una generalizzata quanto irriflessa richiesta di semplificazione. E qui, di nuovo, ricompare il populismo, con la sua offerta di allettanti scorciatoie, con l'illusione di poter delegare a qualcuno la soluzione di tutti i problemi in cambio di un'adesione viscerale, fideistica, che fa a meno del ragionamento politico e dell'impegno consapevole degli individui. In questo senso, i populismi sono sempre di destra, antidemocratici. (...)


Lapo Berti, italiano, economista, è stato dal marzo 1993 al luglio 2010 dirigente presso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. È stato docente di Politica economica e finanziaria. Si è occupato di problemi di teoria monetaria e di storia del pensiero economico nonché di politica economica. È autore di L’Antieuropa delle monete (con A. Fumagalli, Il Manifesto 1993) e di Saldi di fine secolo. Le privatizzazioni in Italia (Ediesse, 1998). Più di recente ha pubblicato Il mercato oltre le ideologie (Università Bocconi Editore, 2006), Le stagioni dell'antitrust (con Andrea Pezzoli,Università Bocconi Editore 2010) e Trattatello sulla felicità (LUISS University Press, 2013). Giovanissimo, ha  iniziato a collaborare (1964-1966) con il gruppo della rivista della sinistra operaista "Classe Operaia" di cui Mario Tronti  fu tra i fondatori (con Massimo Cacciari e Alberto Asor Rosa) e negli anni Settanta è stato redattore di alcuni progetti editoriali militanti tra i quali la rivistaPrimo Maggio. Presidente dell'associazione ACQ/Lab21 scrive regolarmente sul sito di www.lib21.org

martedì 12 novembre 2013

Michel Foucault: Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio, 1981 @ Einaudi, It, Dic. 2013

Mal fare, dir vero

Michel Foucault

Funzione della confessione nella giustizia. 

Corso di Lovanio (1981)
Piccola Biblioteca Einaudi Ns, 2013
pp. XVI - 352 


A cura di Fabienne Brion
e di Bernard E. Harcourt

L'avventuroso ritrovamento del corso di Lovanio conferma quale sia stato il problema che ha orientato, dall'inizio alla fine, il lavoro di Michel Foucault: quello della verità, nei suoi rapporti con la soggettività. Una verità qui declinata nella forma peculiare ed esclusiva della storia dell'Occidente, quella della confessione. Il cuore di queste lezioni, infatti, è costituito dalla ricostruzione del dispositivo che va dalle pratiche penitenziali nel cristianesimo primitivo alle procedure di veridizione di sé e sottomissione nel monachesimo cenobitico. È lí, secondo Foucault, che è stato allestito un nuovo tipo di soggettività, ormai indissolubilmente legato all'obbligo di verbalizzazione della colpa commessa e al dovere di esplorazione degli arcana conscientiae, nucleo dell'inquadramento cristiano dell'esistenza individuale. Attraverso la progressiva generalizzazione ed estensione di un'ermeneutica che si mette a ricercare nel «foro interiore della coscienza» e nelle spire della concupiscenza la verità segreta dell'anima, Foucault diagnostica la nascita di una forma di governo degli individui destinata a investire la vita nella sua totalità, fino alle tecniche giudiziarie dell'età contemporanea e alle procedure di medicalizzazione dell'esistenza, origine di tutte le psicologie che pretenderanno, di lí in avanti, di decifrare i misteri dell'anima, facendoci credere che solo cosí potremo accedere alla libertà e alla verità. È forse allora proprio per rimetterle in discussione che Foucault si spingerà a formulare il solo imperativo e la sola prescrizione che abbia mai enunciato: «Non confessiamo mai!»