martedì 31 gennaio 2012

Giorgio Agamben - Altissima poverta'. Regole monastiche e forma di vita - Neri Pozza, It, Ottobre 2011 - De la très haute pauvreté, Rivages, Fr, 2011, Septembre 2011



Che cos'è una regola, se essa sembra confondersi senza residui con la vita? E che cos'è una vita umana, se in ogni suo gesto, in ogni sua parola, in ogni suo silenzio non può più essere distinta dalla regola?
È a queste domande che il nuovo libro di Agamben cerca di dare una risposta attraverso un'appassionata rilettura di quel fenomeno affascinante e sterminato che è il monachesimo occidentale da Pacomio a San Francesco. Se il libro ricostruisce nei particolari la vita dei monaci nella loro ossessiva attenzione alla scansione temporale e alla regola, alle tecniche ascetiche e alla liturgia, la tesi di Agamben è, però, che la vera novità del monachesimo non sta nella confusione fra la vita e la norma, ma nella scoperta di una nuova dimensione, in cui forse per la prima volta la «vita» come tale si afferma nella sua autonomia e la rivendicazione dell'«altissima povertà» e dell'«uso» lancia al diritto una sfida con cui il nostro tempo deve ancora fare i conti.
«Come pensare una forma-di-vita, cioè una vita umana del tutto sottratta alla presa del diritto e un uso dei corpi e del mondo che non si sostanzi mai in un'appropriazione? Come pensare la vita come ciò di cui non si dà mai proprietà, ma soltanto un uso comune?».

«L'"altissima povertà", col suo uso delle cose, è la forma-di-vita che comincia quando tutte le forme di vita dell'Occidente sono giunte alla loro consumazione storica».



LE REGOLE MONASTICHE SECONDO AGAMBEN

di Antonio Gnoli
La Repubblica

Le regole monastiche secondo Agamben

L'ultimo saggio del filosofo sulla povertà. E sull'ideale della vita in comune

Si può scegliere la povertà senza subirla? Questione delicata, soprattutto per noi moderni, abituati a vedere nella ricchezza uno dei prepotenti obiettivi della nostra esistenza. Eppure la storia convoca esempi in cui la povertà è un gesto che nasce da una decisione piuttosto che da un'imposizione e che ci condanna a una rassegnata e indesiderata condizione di indigenza. È facile nascere o diventare poveri, ma esserlo, con tutte le implicazioni profonde di tale condizione, può aprire scenari giuridici, etici e politici per noi impensabili.

Il nuovo libro di Giorgio Agamben - Altissima povertà (Neri Pozza) - sceglie la figura del monaco per analizzare il complicato rapporto tra povertà e regola. O meglio ancora, come scrive l'autore: «Il dispositivo attraverso il quale i monaci provarono a realizzare il loro ideale di una forma di vita comune». Che cosa hanno di interessante quelle figure religiose che tra il quarto e il quinto secolo si produssero in una letteratura al cui centro erano state elaborate le regole monastiche? Fa notare Agamben che proprio quei testi, tanto disparati e monotoni da risultare disagevoli al lettore moderno, possono chiarire, meglio di tanti libri di etica o di diritto, la relazione tra l'azione umana e la norma, tra la vita e la regola. Ma occorre aver chiaro che l'ideale monastico nasce prima come fuga solitaria e individuale dal mondo (l'eremo) e solo in seguito si trasformerà in un ideale di vita comunitaria (il cenobio). Cioè diventerà u sistema capace di dar vita a una comunità di credenti, dove tutto è in comune. Abitare insieme non è solo un fatto materiale ma una condizione spirituale, grazie alla quale il monaco si eleva verso il cielo. Nella Scala claustralis di Bernardo sono quattro i gradini dell'innalzamento: la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione. Un tale movimento presuppone un nuova scansione temporale «il cui rigore», osserva Agamben, «non soltanto non aveva precedenti nel mondo classico, ma, nella sua intransigente assolutezza, non è stato forse uguagliato in alcuna istituzione della modernità, nemmeno dalla fabbrica taylorista». La vita del monaco è interamente regolata da una divisione del tempo che ritroveremo dispiegata nei dispositivi della modernità. Ma cosa ci insegna quell'esperienza sulla quale scese anche la condanna della Chiesa?
Uno dei punti di snodo nella riflessione di Agamben è il francescanesimo, per il quale il rapporto tra regola e vita si fa più acuto e più bruciante il conflitto con la curia. È Francesco a porre al centro del modello di vita dei frati minori l'altissima paupertas. Dove per povertà si deve intendere non solo, o non tanto, una pratica ascetica di perfezione in cambio della salvezza, ma soprattutto una diversa concezione dell'uso dei beni e del loro possesso. Per i francescani e per il suo fondatore è possibile una vita fuori dal diritto (abdicatio iuris), ossia fuori dalla proprietà. Di qui, ad esempio, l'importanza che gli animali rivestono in Francesco, le loro vite autonome dal diritto sono un modello per i fratelli la cui condotta implica una rinuncia alla povertà, ma non all'uso, dei beni. Molto prima che nascessero i movimenti che rivendicheranno l'abolizione della proprietà, il francescanesimo adotta una povertà di tipo nuovo che si richiama al vivere secondo la forma del santo Vangelo. Quella che potrebbe essere una posizione teoricamente feconda finirà, nei secoli successivi, col diventare marginale. La parte conclusiva del libro converge sulla sconfitta delle posizioni francescane. Il limite dei teorici francescani è, per Agamben, riconducibile alla loro incapacità di approfondire la teoria dell'uso e di connetterla con l'idea di forma di vita. Sono questi i due grandi dispositivi che l'Occidente, dopo il fallimento francescano, ha lasciato sospesi, irrisolti, impensati.


De la très haute pauvreté |  Giorgio Agamben
Règles et forme de vie (Homo Sacer, IV, I)
Paru le : 14-09-2011  
Traduit de l'italien par Joël Gayraud

Qu'est-ce qu'une règle, si elle semble se confondre avec la vie ? Et qu'est-ce qu'une vie humaine, si en chacun de ses gestes, en chacune de ses paroles, en chacun de ses silences, elle ne peut plus se distinguer de la règle ?

C'est à ces questions que le nouveau livre de Giorgio Agamben tente de donner une réponse, à la faveur d'une relecture passionnée de ce phénomène fascinant et d'une portée considérable que fut le monachisme occidental depuis Pacôme jusqu'à saint François d'Assise. Tout en s'appuyant sur une reconstruction minutieuse de la vie des moines dans leur souci obsessionnel de la scansion temporelle et de la règle, Agamben montre que la véritable nouveauté du monachisme ne réside pas dans la confusion entre la vie et la norme, mais dans la découverte d'une nouvelle dimension humaine où, pour la première fois peut-être, la «vie» comme telle s'affirme dans son autonomie et où la revendication de la «très haute pauvreté» lance au droit un défi dont notre époque doit encore tenir compte.

domenica 29 gennaio 2012

Raymond Aron / Michel Foucault - DIALOGUE - Éditions Lignes, Fr, Octobre 2007



DIALOGUE

Inédit. Deux philosophes que tout semble séparer (l’âge, l’histoire, l’engagement) dialoguent. Raymond Aron vient de faire paraître Les Étapes de la pensée sociologique. C’est sur ce livre que devait porter l’entretien ici retranscrit pour la première fois. Or, c’est au contraire autour de celui que Michel Foucault vient de publier, Les Mots et les Choses, que s’organise la conversation.
On serait tenté de donner à l’année 1966-67 le sous-titre d’"année structuraliste". Les débats autour du mot, de la méthode et des ses possibles applications font rage dans l’espace intellectuel français. C’est en 1966, surtout, qu’au "matérialisme dialectique" d’Althusser, au structuralisme anthropologique de Claude Lévi-Strauss et aux travaux psychanalytiques de Lacan, s’ajoutent les conclusions de Les Mots et les Choses, où Michel Foucault remet en question le point de vue classique des sciences humaines, tout en annonçant la mort prochaine de l’homme. L’important succès de ce livre n’éteint pas les critiques, et le jeune philosophe doit à de nombreuses reprises clarifier son projet et clarifier sa méthodologie, justifier l’emploi d’un style quelque peu "flamboyant", contre ce qu’il considère être de fausses interprétations. C’est dans cette période passionnée que Michel Foucault rencontre Raymond Aron lors d’un entretien radiodiffusé le 8 mai 1967, et intitulé "Les Idées et l’Histoire". Le sociologue, de vingt-cinq ans son ainé, vient de faire paraître dans la même collection que Les Mots et les Choses son important ouvrage : Les Étapes de la pensée sociologique. La discussion devait initialement porter sur ce dernier. Or, cette rencontre est au contraire l’occasion, pour les deux philosophes, d’aborder les questions relatives à la méthode et à la nouveauté (contestées) que propose Les Mots et les Choses. On y découvre que Raymond Aron est un lecteur passionné et passionnant, tout à la fois contradicteur et défenseur du travail de Michel Foucault. Si cette archive nous apprend peu sur l’attitude de Michel Foucault, sa dénonciation de l’existentialisme, des "marxismes mous", elle documente d’une nouvelle façon la réception problématique de Les Mots et les Choses. Dans son analyse, Jean-François Bert fait revivre les débats méthodologiques de grande qualité qui animaient la vie intellectuelle de l’époque (en citant notamment les articles critiques parus dans les revues d’alors).

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venerdì 27 gennaio 2012

Sulla Fede, sul Credito e sull'Archeologia by Giorgio Agamben @ Chiodo Fisso - Rai, it, 25.01.2012


Il filosofo Giorgio Agamben è stato ospite lo scorso 25 gennaio 2012 della trasmissione radiofonica Chiodo Fisso della RAI Radio3. Oggetto dell'intervento: Il futuro secondo Giorgio Agamben - dieci minuti di intervento in diretta radiofonica sul tema del futuro problematizzato dal punto di vista filosofico. 
Qui la frase memorabile é: "l' Archeologia è la sola via di accesso al presente." Buon ascolto.

Listen Agamben podcast @ Chiodo Fisso/Rai

La fotografia di Agamben è tratta dal sito Scoop.it e dal web magazine Finzioni:
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Per chi volesse leggere l'intero testo dell'intervento, clicchi qui


Maurizio Lazzarato - La fabbrica dell’uomo indebitato @ Alfabeta, It, 05.11.2011



Questo brano costituisce il paragrafo introduttivo del libro di Maurizio LazzaratoLa fabrique de l’homme endettéEssai sur la condition néolibérale, Editions Amsterdam, 2011. La traduzione italiana, per le edizioni DeriveApprodi, è prevista per aprile 2012.


Traduzione dal francese di Andrea Inglese


In Europa la lotta di classe, così come è accaduto in altre regioni del mondo, si manifesta e si concentra oggi intorno al debito. La crisi del debito minaccia anche gli Stati Uniti e il mondo anglosassone, paesi dai quali ha avuto origine non solo l’ultimo crollo finanziario, ma anche e soprattutto il neoliberismo. La relazione creditore-debitore, che definisce il rapporto di potere specifico della finanza, intensifica i meccanismi dello sfruttamento e del dominio in maniera trasversale, perché non fa alcuna distinzione tra lavoratori e disoccupati, consumatori e produttori, attivi e inattivi. Tutti sono dei «debitori», colpevoli e responsabili di fronte al capitale, che si manifesta come il Grande Creditore, il Creditore universale. Una delle questioni politiche maggiori del neoliberismo è ancora, come illustra senza ambiguità la «crisi» attuale, quella della proprietà, poiché la relazione creditore-debitore esprime un rapporto di forza tra proprietari (del capitale) e non proprietari (del capitale). Attraverso il debito pubblico, la società intera è indebitata, cosa che non impedisce, ma anzi esaspera «le diseguaglianze», che è tempo di chiamare «differenze di classe».


Le illusioni politiche ed economiche di questi ultimi quarant’anni cadono le une dopo le altre, rendendo ancora più brutali le politiche neoliberiste. La New Economy, la società dell’informazione, il capitalismo cognitivo, sono tutti solubili nell’economia del debito. Nelle democrazie che hanno «trionfato» del comunismo, pochissime persone (qualche funzionario del Fmi, dell’Europa, della Banca centrale europea e qualche politico) decidono per tutti secondo gli interessi di una minoranza. L’immensa maggioranza degli europei viene espropriata tre volte dall’economia del debito: espropriata di un già debole potere politico concesso dalla democrazia rappresentativa; espropriata di una parte sempre più grande della ricchezza che le lotte passate avevano strappato all’accumulazione capitalista; espropriata soprattutto del futuro, ovvero del tempo, come possibile e dunque come decisione, come scelta.


La successione delle crisi finanziarie ha fatto emergere violentemente una figura soggettiva che era già presente ma che occupa ormai l’insieme dello spazio pubblico: l’«uomo debitore». Le figure soggettive che il neoliberismo aveva promesso («tutti azionari», «tutti proprietari», «tutti imprenditori») si trasformano e ci conducono verso la condizione esistenziale dell’uomo debitore, responsabile e colpevole della sua sorte. È dunque urgente proporre una genealogia e una cartografia della fabbrica economica e soggettiva che lo produce.
Dalla precedente crisi finanziaria che è esplosa con lo bolla internet, il capitalismo ha abbandonato le narrazioni epiche che aveva elaborato attorno ai «personaggi concettuali» dell’imprenditore, dei creativi, del lavoratore cognitivo o del lavoratore indipendente «fiero di essere il proprio padrone» che, perseguendo esclusivamente i loro interessi personali, lavorano per il bene di tutti. L’implicazione soggettiva e il lavoro su di sé, predicati dalla retorica manageriale a partire dagli anni Ottanta, si sono trasformati in un’ingiunzione aprendere su di sé i costi e i rischi della catastrofe economica e finanziaria. La popolazione deve farsi carico di tutto ciò che le imprese e lo Stato assistenziale «esternalizzano» verso la società e, in primo luogo, del debito.
Per i padroni, i media, gli uomini politici e gli esperti, le cause della situazione non sono da cercare né nelle politiche monetarie e fiscali, che aumentano il deficit, operando un transfert massiccio di ricchezza verso i più ricchi e le imprese, né nella successione delle crisi finanziarie, che dopo essere praticamente sparite nel corso dei primi trent’anni del dopoguerra, si ripetono con regolarità estorcendo delle somme di denaro esorbitanti alla popolazione per evitare ciò che chiamano una «crisi sistemica». Le vere cause di queste crisi a ripetizione risiederebbero nelle esigenze eccessive dei governati (specialmente nel Sud dell’Europa) che vogliono vivere come delle «cicale» e nella corruzione delle élite che, in realtà, hanno sempre giocato un ruolo nella divisione internazionale del lavoro e del potere.
Stiamo andando verso un approfondimento della crisi. Il blocco di potere neoliberista non può e non vuole «regolare» gli «eccessi» della finanza, perché il suo programma politico è sempre quello rappresentato dalle scelte e dalle decisioni che ci hanno condotto all’ultima crisi finanziaria. All’opposto, con il ricatto del fallimento dei debiti «sovrani» (che di sovrano hanno ormai solo il nome), vuole portare fino in fondo il programma di cui sogna, fin dagli anni Settanta, l’applicazione integrale: ridurre i salari al livello minimo, tagliare i servizi sociali per mettere il welfare al servizio dei nuovi «assistiti» (le imprese e i ricchi) e privatizzare tutto quello che non è ancora stato venduto ai privati.
Noi manchiamo di strumenti teorici, di concetti, di enunciati, per analizzare non tanto la finanza, ma l’economia del debito che la comprende e la travalica, così come la sua politica e suoi dispositivi di assoggettamento. La crisi che stiamo vivendo ci impone di riscoprire la relazione creditore-debitore elaborata dall’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Pubblicato nel 1972, anticipando teoricamente lo spostamento dell’iniziativa del capitale che si produrrà qualche anno dopo, ci permette, alla luce di una lettura di Nietzsche della Genealogia della morale e della teoria marxiana della moneta, di riattivare due ipotesi. Prima di tutto, l’ipotesi secondo cui il paradigma sociale non è dato dallo scambio (economico e/o simbolico), ma dal credito. A fondamento della relazione sociale non c’è l’uguaglianza (dello scambio), ma l’asimmetria del debito/credito che precede, storicamente e teoricamente, quella della produzione e del lavoro salariato. In secondo luogo, l’ipotesi secondo cui il debito è un rapporto economico indissociabile dalla produzione del soggetto debitore e dalla sua «moralità» . L’economia del debito aggiunge al lavoro nel senso classico del termine un «lavoro su di sé», in modo che economia ed «etica» funzionino congiuntamente. L’economia del debito fa coincidere la produzione economica e la produzione di soggettività. Le categorie classiche della sequenza rivoluzionaria del XIX e XX secolo – lavoro, sociale e politico – sono attraversate dal debito e ampiamente ridefinite da esso. È quindi necessario avventurarsi in territorio nemico e analizzare l’economia del debito e la produzione dell’uomo debitore, per cercare di costruire qualche arma che ci servirà a condurre le lotte che si annunciano. Perché la crisi, lungi dal terminare, rischia di estendersi.


Guattari, prises multiples par Robert Maggiori @ Libération, 19 janvier 2012



Guattari, prises multiples (Libération, 19 janvier 2012)

CRITIQUETrois ouvrages pour les 20 ans de la mort du psychanalyste, qui avec Deleuze conçut la bombe de «l’Anti-Œdipe» Par ROBERT MAGGIORI


On a une idée imprécise de la façon dont Félix Guattari et Gilles Deleuze travaillaient ensemble. On sait bien, en revanche, ce qu’ils entendaient par «philosopher» : fabriquer des concepts, les découper, les limer, les clouer, les encastrer les uns dans les autres, non pour poser un coffrage sur le réel, mais pour imbriquer des pans de réalités hétérogènes, qui, en se collant, créeraient des plans nouveaux d’où sourdent inopinées des multiplicités d’événements. Aussi les imagine-on en ouvriers, menuisiers ou maçons. L’un était plutôt l’homme du chantier, de la fouille, de la découverte de matériaux, de l’inventivité, l’autre celui de la maison, de la construction, de la finition, de la dernière main - celui-ci était le fleuve, le main stream, si l’on veut, l’autre tous les affluents, bouillonnants. Deleuze n’a pas cessé de dire ce qu’il devait à la créativité exubérante de son ami, qui lui fit voir sous un autre jour les problèmes politiques, les «incidences militantes», ou la psychanalyse, le lacanisme, la psychiatrie…
Brouillons. Félix Guattari a disparu il y a juste vingt ans. De lui paraissent aujourd’hui, pour célébrer cet anniversaire, trois ouvrages : Ecrits pour l’Anti-ŒdipeDe Leros à La Borde, et Lignes de fuite, un long texte inédit retrouvé par ses enfants. Ils illustrent chacun une «facette» de son activité multiforme. Le premier, déjà publié en 2004, permet de mieux saisir le «fonctionnement» de sa collaboration avec le philosophe, ou plutôt le mode de production de la machine théorique qu’était «Deleuze-Guattari» : il s’agit en effet, rédigés entre 1969 et 1972, des textes, essais, notes, fiches de lectures, brouillons, lettres que Guattari faisait parvenir à Deleuze en vue de la préparation de cette «bombe» que fut L’Anti-Œdipe - premier ouvrage commun, avant RhizomeKafkaMille Plateaux et Qu’est-ce que la philosophie ? Le deuxième met en scène le Guattari psychanalyste, qui dès 1955 rejoint la clinique de La Borde où son fondateur, Jean Oury, avait lancé la «psychothérapie institutionnelle». Il est composé de deux textes. L’un, le Journal de Leros, est le récit du voyage-enquête (paru dans Libération le 13 octobre 1989) effectué par Guattari dans deux hôpitaux psychiatriques grecs, dont des images diffusées dans le monde entier - «des corps nus, des visages décharnés et figés dans la peur et l’angoisse derrière des grilles» -avaient montré qu’il s’agissait d’un véritable bagne, d’un «camp de concentration sans la présence d’aucun personnel soignant, sans même un psychiatre». L’autre, De Leros à La Borde, décrit, à la manière d’une brève autobiographie, la pratique «analytique et sociale» de Guattari, la façon dont il apprend «à connaître la psychose et l’impact que pouvait avoir sur elle le travail institutionnel», dont il interconnecte approches cliniques et politiques, met en place de «multiples instances collectives, assemblées générales, secrétariat, commissions paritaires pensionnaires-personnel […], "ateliers" de toutes sortes, journal, dessin, couture, poulailler, jardin, etc.», bref crée, avec Oury, un lieu de vie «autre», qui n’a plus rien à voir avec l’«asile», tout de violence, d’enfermement et de maltraitance, et qui entraîne la mise en cause non seulement de la vieille psychiatrie, mais «de la santé, de la pédagogie, de la condition pénitentiaire, de la condition féminine, de l’architecture, de l’urbanisme…»
Label. Lignes de fuite, rédigé en 1979-1980 - avant Mille Plateaux - est un ouvrage théorique d’importance. Outre le lexique, la furie néologique et le style de Guattari, reconnaissables à mille lieues («agencements collectifs du désir»«cartes et rhizomes»«reterritorialisation»«accélérations sémiotiques», «schizoanalyse»), on y trouve l’essentiel de sa pensée, dont le label pourrait être celui de transversalité, qui lui fait découvrir des connexions inédites, fabriquer des passerelles et des interactions entre individus, groupes, mouvements, investissements libidinaux, domaines du savoir, pratiques sociales et politiques. Dans la préface, Liane Mozère résume la question que pose Lignes de fuite «Comment agir dans le capitalisme mondial intégré afin de faire advenir des possibles ?» On devine que, pour y répondre, Guattari ne rédige pas des manifestes politiques. Il démonte ce que Michel Foucault nommait déjà la «microphysique des pouvoirs», la façon«moléculaire» qu’a le pouvoir non seulement d’investir, pour les rendre inaltérables, les institutions politiques, mais aussi la subjectivité, que des règles de langage, des codes, des valeurs, des protocoles assujettissent aussi bien et rendent conformes aux intérêts du pouvoir. Aussi commence-t-il par le «fond» même de cette subjectivité, à savoir l’inconscient, lequel, «ni individuel ni collectif», n’est pas, comme le pensait Lacan, «structuré comme un langage», mais comme «une multiplicité de modes de sémiotisation».
Building.«On n’a jamais affaire à l’Inconscient avec un I majuscule, mais toujours à n formules d’inconscients, variant en raison de la nature des composantes sémiotiques qui connectent les individus les uns aux autres : les fonctions somatiques et perceptives, les institutions, les espaces, les équipements, les machines, etc..», écrit Guattari. L’enjeu n’est évidemment pas psychanalytique, mais politique : soumettre la subjectivité à un«référent unique», à une Forme, une Structure, un Signifiant, c’est perpétuer une sorte de subjectivité, celle de «l’énonciation individuée», de la fausse autonomie, d’un «petit sujet dans ma tête, comme un manager minuscule, tout en haut d’un building», ou de «la production en série et l’exportation massive du sujet, blanc, conscient, mâle, adulte, maître de lui et de l’univers», et, ainsi, nier «la diversité infinie des modes de subjectivité, de réflexivité et de discursivité», par quoi, en s’agrégeant, se constituent les«populations moléculaires», ou les «meutes», moins «prises» par les«formations de pouvoir capitalistiques».
Sans doute pensera-t-on qu’encore ébouriffé par les vents de l’après-Mai 68,Lignes de fuite parle une langue morte, porte des espérances et des enthousiasmes désormais essoufflés. En réalité, certaines de ses pages semblent avoir été écrites hier. Elles expliquent comment, malgré tout, et lorsqu’on ne s’y attend guère, peuvent naître les printemps - dans la vie bloquée d’un individu ou dans un corps social paralysé par la crainte, l’oppression, la misère, le conditionnement, la terreur. Et comment des volontés enchaînées soudain se conjuguent, s’allient, s’encouragent, se libèrent, deviennent «mouvement» et trouvent la force d’oser l’impossible.


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mercoledì 25 gennaio 2012

Tribute to (Hommage à) Theo Angelopoulos (1936-2012) - Ulysses Gaze/Lo sguardo di Ulisse (The Lenin bust on the barge...)



An exiled Greek filmmaker is returning home and sets out on an epic journey across the battered Balkans in search of three lost reels of film by the Manakis brothers, the pioneering photographers who introduced movies into the Balkans at the beginning of the century.


Soundtrack composer: Eleni Karaindrou - Viola by Kim Kashkashian

Pierandrea Amato LA RÉVOLTE (Éditions Lignes, Fr, 2011) - La rivolta (Cronopio, It, 2010)


Pierandrea Amato 
LA RÉVOLTE 
Traduit de l’italien par Luca Salza
Date de parution : 17 février 2011


La figure de la révolte suscite la méfiance. On lui préfère généralement celle de la révolution. Pour Pierandrea Amato, la révolte constitue au contraire le présupposé ultra-politique de toute politique véritable, parce qu’elle est inscrite dans l’existence de chacun : « la révolte, affirme-t-il en effet, est un événement qui manifeste une inclination fondamentale de l’existence humaine. »



La Révolte est une analyse philosophique des révoltes métropolitaines qui, avec la fin du monde bipolaire, ravagent sans trêve les alchimies du pouvoir global. Une analyse qui se développe en présentant une série de matériaux au travers desquels la révolte n’apparaît pas simplement comme un mouvement insurrectionnel hostile à tout pouvoir constitué et aux formes organisées de révolution politique. La thèse est ici plus radicale : la révolte est un événement qui manifeste une inclination fondamentale de l’existence humaine.
Dans la perspective entrouverte par le lien entre la politique et l’existence, et à l’ombre d’un démon classique de la philosophie (l’ambition d’intégrer la théorie et la praxis), La Révolte est né avec l’intention de démontrer que les mouvements urbains capables d’inquiéter le pouvoir global des dernières années (songeons aux révoltes de Los Angeles, Gênes, Athènes et en particulier à celles des banlieues parisiennes) ne sont pas, comme on le considère généralement, des formes violentes d’antipolitique, mais qu’elles constituent au contraire la sédimentation d’un événement politique capable de provoquer la rupture des formes qui nous gouvernent.
La problématique au fondement de cet essai est la suivante : « La révolte est une action politique qui dérange la mise en scène de la démocratie à laquelle nous assistons quotidiennement ». La révolte ôte son masque au Léviathan, pour porter à l’ontogenèse de l’homo seditiosus.
Par la révolte, la réalité de la démocratie est révélée. Le souverain se trouve contraint de s’affirmer comme la loi, en même temps que comme son exception. C’est l’ordre démocratique tout entier qui se configure ainsi, tel un exorcisme global, qui peut et doit utiliser toute la violence nécessaire (économique et symbolique, avant d’être militaire et policière) afin d’empêcher le fantôme de revenir. L’ordre simple de la violence est inversé.
La centralité bio-politique que Pierandrea Amato attribue à la révolte ne signifie pas que celle-ci s’oppose à la révolution. Elle la précède plutôt, et la dépasse. La révolte se place à un niveau différent de celui de la révolution, parce qu’elle manifeste une image de la temporalité différente. Alors que la logique de la révolution se développe avec une conception linéaire du temps, la révolte exprime une temporalité liée à l’événement, à l’irruption du temps dans le temps. Cela amène une relation différente avec le pouvoir : si la révolution pense que l’accès au pouvoir est le fondement de la transformation de la singularité, la révolte imagine au contraire que la mutation de la singularité dans l’acte révoltant est le principe de la transformation de ce qu’elle est.

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Pierandrea Amato
La rivolta

2010, pp. 110

Questa è un’analisi filosofica delle rivolte metropolitane che sconvolgono le alchimie del potere globale. Analisi che si sviluppa offrendo una serie di materiali in cui, coniugando nichilismo e politica, la rivolta non appare solo come un movimento insurrezionale ostile a qualsiasi potere costituito e alle forme organizzate della rivoluzione politica. La tesi è più radicale: la rivolta è un evento che manifesta un’inclinazione fondamentale dell’esistenza umana. Vivere significa rivoltarsi. La rivolta è la prima traccia di qualsiasi vero gesto politico.


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Intervista di Pierandrea Amato, 17.10.2011, tratta dal sito Sinistra in Rete
www.sinistrainrete.info



Lei ha di recente pubblicato un libro, La rivolta (Cronopio), tradotto immediatamente anche in Francia, in cui ipotizza che l’età delle rivoluzioni abbia lasciato il posto a quella delle rivolte. Le pare che gli avvenimenti degli ultimi anni e soprattutto mesi le diano ragione, dalle banlieue ad Atene, da Londra a Roma?
Naturalmente ogni rivolta esprime una propria peculiarità con elementi differenti che non vanno minimizzati. Premesso ciò, credo sia possibile individuare un filo rosso che lega le rivolte che stanno ciclicamente infrangendo la normale esistenza del mondo. Si tratta, per dirla in breve, di un rifiuto politico della politica che emerge con il collasso dei tradizionali centri di governo dell’esistenza ed il fallimento sociale dell’architettura neo-liberale. Il contagio delle rivolte, la loro diffusione a catena, il tratto esemplare che ognuna di esse esprime, mi sembra confermare il carattere politico di queste insorgenze. Nel volume cui lei fa riferimento, in questo senso, cerco di pensare un fondamento onto-antropologico delle rivolte: il declino complessivo del progetto politico moderno, lascerebbe spazio alla manifestazione del carattere naturalmente rivoltantedell’esistenza umana non più imbrigliata in una serie sofisticata e disseminata di dispositivi di controllo. Per questa ragione, come lei dice, il nostro è il tempo della rivolta, quando, cioè, la priorità è l’eliminazione di tutte le istituzioni che concorrono a rendere il mondo un luogo immondo. Tutto ciò però, vorrei essere molto chiaro su questo punto, non significa contrapporre la rivolta alla rivoluzione. Piuttosto, si tratta di pensare che la rivolta precede ed eccede qualsiasi rivoluzione. Mi interessa, in sostanza, mostrare la loro diversa relazione con il potere: se la rivoluzione pensa che l’accesso al potere sia il presupposto della trasformazione della singolarità, la rivolta immagina che il mutamento della singolarità sia il principio di una possibile trasformazione e quindi di una sua nuova dimensione plurale.

Si sta ripetendo qualcosa che abbiamo già visto negli anni Settanta o siamo in presenza di qualcosa di nuovo?
Non credo sia un’esagerazione pensare che ci troviamo di fronte a un paesaggio inedito che ci chiama a una continua invenzione di teorie e di pratiche. I motivi, ovviamente, sono diversi. Adesso ne focalizzerei due macroscopici. Il primo, è di natura economica: il tipo di nesso tra la produzione e l’esistenza che oggi si impone, produce un’età in cui tendenzialmente la creazione della ricchezza assume un carattere immateriale fondato sulle qualità generiche dell’uomo che diventano veri e propri strumenti di lavoro (ad esempio, il linguaggio). Insomma, trenta-quaranta anni fa la centralità economica della grande fabbrica possedeva anche una rilevanza sociale straordinaria che garantiva un forte orientamento culturale e politico. Da tempo tutto questoè finito: viviamo una realtà disseminata in cui ciascuno dovrebbe diventare imprenditore di se stesso. Vige una logica dell’isolamento che prescrive l’impossibilità di immaginare un progetto di emancipazione collettivo e impone una precarietà diffusa che aggredisce il corpo, lo sguardo, la mente, l’esistenza di chiunque. Il secondo motivo, in qualche maniera proveniente dal primo, che mi fa ritenere improduttivi i paragoni con il passato, è squisitamente politico: negli anni Settanta, anche soltanto come polo negativo, il partito rappresentava ancora una figura cardine delle pratiche e dell’immaginario politico; un polo di attrazione nodale con cui fare necessariamente i conti. Oggi, a mio avviso, chiunque sia intenzionato a pensare seriamente in termini politici le relazioni che si istituiscono nel mondo, non lo fa in rifermento ai partiti. Anzi, direi di più: riconosce nei partiti un produttore di anti-politica sia perché riducono la politica alla questione del governo sia perché non sono in grado di tutelare la sua autonomia dalle prerogative dell’economia.


Le forze rivoluzionarie, marxiste e quelle della sinistra radicale, perdono terreno a vantaggio di atti di piazza, manifestazioni violente, contestazioni dure, come nella Val Susa per la Tav. Un cambiamento di paradigma, secondo lei, dettato da cosa?
Per tentare di decifrare la crisi della sinistra istituzionale non si può che partire dalla generale afasia di tutti i paradigmi politici della modernità (in primo luogo, la rappresentanza politica); incapaci di fornire un orientamento effettivo alle nostre esistenze, sono diventati, di fatto, esclusivamente codici spettrali della conservazione. Proverei a riassumere la questione in questo modo: oggi intravediamo il compimento di un lungo processo – iniziato all’incirca alla fine del XVIII secolo – nel quale l’economia ha acquisito le prerogative politiche della politica (innanzitutto il governo dell’esistenza tramite la decisione). Ciò significa che la politica, nelle sue forme tradizionali, è tramontata; è diventata inadeguata (il caso della più antica democrazia del mondo, la Grecia, attualmente governata da istituzioni economiche transnazionali, è in questo senso una conferma trasparente del perfezionamento di questo processo). In questo contesto, la sinistra, tradizionalmente chiamata a mutare lo “stato di cose presenti”, non poteva che subire una crisi strutturale causata sostanzialmente dalla propria insignificanza, perché incapace di abbandonare il suo patrimonio culturale di fronte al mutamento profondo della realtà. D’altronde, qualsiasi forza ancorata alla logica politica del moderno, vale a dire restia alla sfida che il nostro tempo ci impone (inventare un sistema politico per l’età globale), sono destinate a svanire o, nel migliore dei casi, a rappresentare tutt’al più gruppi di opinione. Il caso della Tav, cui lei fa riferimento, in questo senso appare veramente esemplare: a opporsi contro una decisione senza giustificazioni ambientali, economiche, sociali, partorita a Bruxelles, dunque fuori la cornice della sovranità nazionale, si trovano soggettività differenti che hanno però in comune una grande determinazione politica e una profonda estraneità rispetto agli agenti della sinistra tradizionale. In questi anni in Val di Susa ha preso forma un movimento esemplare di ciò che dovrebbe essere la politica oggi: la capacità di coniugare istanze locali (con la manifestazione di quello che Alain Badiou nella sua ipotesi comunista definisce “il coraggio locale”) nel quadro più complessivo della globalizzazione. Sia chiaro, se è finita una certa politica, ciò non significa che sia finita la politica in quanto tale. Al contrario: ritengo che sia alle porte un tempo in cui è l’esistenza stessa, senza alcuna mediazione, ad essere consegnata a un destino politico. Le rivolte, in questo senso, costituiscono proprio l’occasione di schiudere lo spazio per l’evento di quest’altra politica.

Che cosa pensa dei fatti di Roma del 15 ottobre?
Quanto accaduto a Roma, innanzitutto, mi sembra un episodio differente rispetto alle sommosse di Parigi o di Atene per citare solo due esempi. Se gli scontri del 15 ottobre hanno, infatti, come obiettivo plateale la polizia, in realtà, non è difficile percepire che il principale antagonista di chi ha sequestrato per qualche ora la Capitale, è il movimento globale degli Indignati sorto contro la violenza della finanza globale. Se il movimento degli Indignati appare, con tutte le difficoltà del caso, da Madrid a New York, consapevole che il nemico oggi non è più lo Stato, ma le agenzie finanziarie transazionali, che dettano l’assalto definitivo di chi ha tutto contro chi non ha nulla, nel corpo a corpo con la polizia, vecchio simbolo della potenza dello Stato sovrano, emerge da parte dei protagonisti degli scontri romani un attaccamento al mondo di ieri. Che in termini politici, per la crescita del movimento, è assolutamente deleterio. Come se i protagonisti degli scontri non potessero sostenere la grandezza della posta in gioco e non fossero all’altezza della novità da sperimentare. Ho l’impressione, in altri termini, che se in altre occasioni l’insubordinazione nasceva dentro il movimento o, in altri casi, su una soglia a esso liminale ma mai a esso estraneo, e per questa ragione la rivolta mostrava un’inedita sagacia democratica e una geniale carica politica (vedi il caso del 14 dicembre 2010 a Roma, quando gli studenti che lottavano contro la riforma Gelmini realizzarono un’imponente manifestazione), il 15 ottobre le cose sono andate diversamente.

Uno striscione a Roma inneggiava al presente contro il futuro. Perché è accaduto questo, il futuro non è più rivoluzionario, il presente invece sì?
Cercherei di sfatare un luogo comune che le rivolte di questi anni si portano dietro: i rivoltosi non sono dei disperati privi di futuro. A me sembra, al contrario, che vi sia nella loro azione una grande determinazione e una profonda acutezza. Nelle rivolte, in altre parole, non è in gioco un generico appello per un futuro migliore, ma innanzitutto un’urgenza del presente, una sorta di nostalgia del presente, che non sopporta l’attesa strategica del momento buono per sollevarsi che, in realtà, non arriva mai. La rivolta, in sostanza, si rifiuta di proiettare nel futuro il cambiamento. Sia chiaro, l’urgenza riguarda un altro presente; per questa ragione, la rivolta, in termini essenziali, è in fondo una manifestazione politica intrinsecamente inattuale: evoca qualche cosa che (ancora) non c’è; ma è in questa maniera che inquieta l’esistente. La rivolta è la forma politica della contingenza e della spontaneità organizzata. Qui e adesso, reclama un altro tempo nel tempo. Se i suoi effetti, probabilmente, non sono immediati, la sua emersione esprime una collera che si manifesta senza attendere domani.

Lei scrive nel suo libro che la rivolta instaura un tempo estatico. Di cosa si tratta?
La rivolta ha la capacità di sospendere il tempo nel tempo; di imporre un’improvvisa frattura nel tempo storico. Come scrive Furio Jesi nel suo libro postumo, Spartakus, la rivolta è un momento epifanico in grado di arrestare il tempo e in cui tutto ciò che accade vale di per sé. Nell’arresto epifanico del tempo, non è difficile cogliere la gioia dei rivoltosi che infrangono, come è accaduto ad esempio nelle banlieues parigine nel 2005, la propria condizione di vittima; si celebra una festa in cui la vigenza della legge è sospesa. L’estasi nella rivolta è l’occasione per qualsiasi singolarità di uscire fuori di sé e incontrare la molteplicità del mondo; costituisce una chance per trasgredire la mera volontà di vivere che ci consegna a ciò che siamo. In questo suo carattere eccedente, la rivolta nasconde la propria anima politica.

Walter Benjamin, che pure parlava degli operai di Parigi, che sparavano contro gli orologi, odiati simboli del tempo di lavoro, ha scritto una frase molto citata sul pericolo della estetizzazione della politica, ritenendo questo fenomeno di natura fascista. Le rivolte sono un fatto estetico? Hanno forse qualcosa di fascista nella loro attuazione e sviluppo?
Una rivolta può naturalmente esprimere un carattere reattivo perché incapace o indifferente alla trasformazione del mondo. La rivolta, al contrario, quando non è reattiva, contribuisce a destituire la legittimità di qualsiasi potere costituito. Più precisamente, è un evento politico, se le soggettività che vi prendono parte e lo spazio in cui esplode, dopo l’evento, non sono più come prima. Insomma, se l’evento scatenante produce una serie di eventi. Per venire al problema dell’estetizzazione fascista della politica, che sarebbe in ballo con le rivolte, mi sembra che assegnare a qualsiasi rivolta una dimensione estetizzante, come se ogni rivolta fosse necessariamente ‘di destra’, sia una maniera per esorcizzarne la comparsa e il profilo misterioso e impenetrabile. L’opinione che i rivoltosi siano essenzialmente attratti dall’ebbrezza del gesto fine a se stesso, oltre a mostrare una certa pigrizia analitica verso le trasformazioni delle condotte di chi fa politica oggi, probabilmente rivela anche qualcosa di più: soltanto se diventa un avvenimento spettacolare, nella società in cui tutto è spettacolo, la rivolta può essere ricondotta al già noto e in questo modo, privata della sua carica potenzialmente politica, affrancata dal suo lato inquietante per qualsiasi posizione di potere.

La democrazia rappresentativa è oggi in crisi. Le rivolte sono l’effetto di questa crisi? A quale esito ci espongono? La democrazia è dunque finita in Occidente?
La democrazia, come regime politico, è uno dei nemici contro cui scagliarsi per chi contrasta la diffusione planetaria dell’individuo proprietario. In nome di che cosa? Probabilmente ancora in nome della democrazia; o meglio: per provocare un’eccedenza democratica nei confronti della democrazia. Il nostro, infatti, è il tempo in cui ogni eccesso democratico, in nome della democrazia, è sistematicamente soffocato. La democrazia è diventata un modello per garantire la ribellione dei pochi contro i molti perché la rappresentanza politica ha esaurito la propria funzione storica, dal momento che è tramontato un tipo di conflitto da risolvere politicamente; nell’impero dell’economia neo-liberale, infatti, dovrebbero emergere soltanto divergenti, per quanto brutali, interessi in libera concorrenza. In questo senso, la democrazia diventa lo strumento per produrre lo spazio indispensabile per l’imposizione dell’ordine del discorso neo-liberale. A mio avviso, se è ancora possibile salvaguardare la democrazia, per farne ancora un nome per cui valga la pena lottare, bisogna guardare alle rivolte. Nella sua mancanza di un fondamento, e quindi grazie alla sua radicale apertura al possibile, la democrazia può rintracciare la propria dimensione aurorale che la distingue dal problema del governo e dalle esigenze dell’economia. Le rivolte provocano lo spazio per l’effettivo esercizio di una pratica democratica.

Lei ha scritto che la rivolta è un vento che porta con sé la propria autodistruzione. Mi vuole spiegare cosa intendeva?
La rivolta è un evento epifanico. Possiede un carattere inatteso e aleatorio. Per essere fedele alla sua natura evenemenziale, per non tramutarsi in una nuova figura di potere costituito, la rivolta, se è tale, inevitabilmente è destinata a dissolversi per, come dire, auto-combustione. La sua fine è inscritta nella sua stessa natura. Ciò non significa che non produca effetti al di là della sua manifestazione e che non ci sia un lavoro carsico della rivolta. Tuttavia, la sua fenomenologia è segnata dall’assenza. In questo senso, non è possibile elencare la causa di una rivolta. Si possono intravedere delle motivazioni, delle complicità, ma qualcosa è sempre destinato a sfuggire; a rimanere inesplicabile. Ciò probabilmente dipende dalla peculiare struttura della rivolta in cui causa ed effetto dell’evento sono co-implicati; nel senso che la rivolta trae da se stessa la propria verità (come dicevo prima, citando Jesi, nella rivolta tutto ciò che accade vale solo per se stessa). Per questo motivo, il pensiero che la pensa è destinato a smarrirsi nella sua esperienza.

Chi sono i teorici di questa idea della rivolta? Il germanista Furio Jesi autore di Spartacus. Simbologia della rivolta. Albert Camus con il suo “uomo in rivolta”, i teorici della moltitudine come Toni Negri?
Le confesso che ho più di una difficoltà a individuare legami espliciti per il tipo di esperienza politica della rivolta che tento di riconoscere all’opera nel mondo globale. Non certo per la mancanza di riferimenti, ma, al contrario, per la loro abbondanza. Il mio lavoro, in effetti, ha un’anima filosofica che mette insieme, come mi è stato peraltro fatto notare criticamente, anche autori che generalmente non stanno insieme (ad esempio, una certa lettura di Heidegger e di Benjamin). Manipolo strumenti differenti per mettere a fuoco il cuore indeterminato della rivolta. La complessità a identificare determinate referenze teoriche non è, in realtà, un dato estrinseco alla questione; ciò accade probabilmente perché la rivolta non può essere adottata, per essere fedeli alla sua natura, come un argomento qualunque di studio senza cadere in affermazioni aporetiche e superficiali. Non può essere un oggetto di analisi come un altro, ma nella scrittura sulla rivolta si dovrebbe condensare, sino a confondere le due dimensioni, riflessione filosofica ed esperienza politica. Ciò detto, potrei citare una serie di autori che concorrono a delineare l’orizzonte ‘ontologico’ del mio discorso anche se, nel merito del problema politico, possono in alcuni casi essere considerati agli antipodi: Heidegger, Marx, Nietzsche, Benjamin, Foucault, Deleuze, Negri, Jünger, Agamben, Jesi. A questo elenco, come avrà notato, manca il più noto teorico novecentesco della rivolta, Camus. In effetti, per un’impostazione che rivendica l’indole politica delle rivolte, o se vogliamo bio-politica, la sua elaborazione non ha una rilevanza particolare. Non è possibile per me adesso entrare nel dettaglio, quindi mi limito a una battuta (peraltro anche nel testo, mi rendo conto, su questo punto importante ho detto troppo poco): L’uomo in rivolta mi sembra che pensi la necessità della rivolta in un’ottica in cui all’azione è riservato un ruolo secondario; il No appare innanzitutto un avvenimento intimo dell’individualità che resiste all’ingiustizia del mondo. Dal mio punto di vista, la logica del rifiuto, il gesto della schivata, costituiscono invece un movimento della singolarità che abbandona la propria individualità nell’incontro con altri nell’ottica ineluttabile del gesto politico comune.