venerdì 13 gennaio 2012

Rovatti - Il gregge di Foucault @ La Repubblica, 9 gennaio 2006


PIER ALDO ROVATTI

Il gregge di Foucault

Due importanti volumi del corpus delle opere di Michel Foucault, da poco usciti in Francia e sollecitamente tradotti in italiano, rilanciano il "caso Foucault" su alcune idee cardine del suo pensiero - ma anche cardinali nel nostro modo di pensare i problemi di fondo del presente in cui tutti ci dibattiamo - come «potere» e «soggetto». I volumi sono Sicurezza, territorio, popolazione e Nascita della biopolitica, e si tratta dei corsi tenuti al Collège de France nel 1977-78 e nel 1978-79 (Feltrinelli, rispettivamente pagg. 400 e pagg. 352), cioè nell' ultimo periodo (Foucault muore nel 1984), quando le sue ricerche si addensano e si intrecciano, e sembrano anche prendere nuove strade, spostare in modo non lieve il baricentro di un percorso che dal 1961 al 1976, dalla Storia della follia a Sorvegliare e punire, è diventato per tutti il percorso di Foucault, lo studioso delle pratiche marginali (il manicomio, la prigione, ecc.) come produttrici, non solo sintomi, delle trasformazioni complessive della società attraverso strategie anonime e impersonali di assoggettamento e disciplinarità. Questo Foucault, che ormai è entrato nel bagaglio culturale di oggi, da moltissimi ormai acquisito dopo qualche comprensibile shock iniziale, è il Foucault della microfisica del potere, che distoglie il nostro sguardo dal Potere (con la maiuscola) identificato nelle istituzioni centrali come lo Stato e dunque fuori dalla portata delle pratiche quotidiane e dunque dai soggetti, ma che ci mostra anche, con schiacciante documentazione, che i soggetti stessi, quali almeno ci illudiamo di poter essere, sono nient' altro che l' effetto dei dispositivi di potere (con la minuscola) in cui siamo presi, corpi e anime. La svolta degli ultimissimi anni (testimoniata dai corsi, alcuni ancora in attesa di pubblicazione, e da una quantità di conferenze e interviste leggibili nella monumentale raccolta dei Dits et écrits, edita da Gallimard e solo molto parzialmente tradotta) riguarderebbe proprio un' idea di soggetto padrone di se stesso che Foucault attinge alla "spiritualità" greca e romana cui dedica ricerche approfondite per ricavarne una sorta di etica della cura di sé in cui sembra riconoscersi e che sembra voler rilanciare come programma filosofico-esistenziale ancora buono per i nostri giorni. Un' idea di estetica dell' esistere come condotta complessiva del sé che si origina quasi per deviazione durante lo svolgimento di un' impresa non compiuta, una Storia della sessualità, per dir così anti-freudiana, partita con un fragoroso preambolo (la Volontà di sapere del 1976) e poi realizzata solo parzialmente con i volumi su l' Uso dei piaceri e la Cura di sé (tutti e tre disponibili nelle edizioni Feltrinelli). Nell' imminenza della morte, letteralmente massacrato dall' Aids, Foucault riesce a correggere le bozze della Cura di sé, mentre un ulteriore volume, le Confessioni della carne, praticamente già scritto resta a tutt' oggi inedito. Già solo da tali rapidi accenni, si capisce bene come il Foucault della microfisica del potere potesse apparire in rotta di collisione con questo passo a lato verso le pratiche soggettive di libertà, e infatti la discussione è tutt' altro che spenta e va prendendo piede tra gli interpreti l' esigenza di una «rilettura» dell' intera riflessione di Foucault. Il quale, a dire il vero, aveva avvertito più volte chi lo ascoltava e lo leggeva che la sua andatura era simile a quella del granchio che notoriamente procede per spostamenti laterali. Infatti - e chiedo scusa al lettore di questa non brevissima premessa, ma una minima cornice era necessaria - i due volumi ora usciti in simultanea (e che effettivamente costituiscono un unico blocco di analisi) rendono ancora più complesso il quadro, segnando un altro ben visibile passo laterale dato che adesso Foucault si dirige speditamente (adesso, cioè proprio mentre sta cominciando a rielaborare la Storia della sessualità) verso l' idea di biopolitica. La biopolitica è il governo della popolazione come insieme di individui che nascono e muoiono, hanno un sesso, esigono cure mediche, garanzie di sussistenza e di sicurezza a tutti i livelli del loro esistere. Insomma la biopolitica, verso cui Foucault si incammina aprendo, secondo il suo stile sensibile soprattutto alla storia delle pratiche, una poderosa indagine genealogica, dalla modernità a ritroso fino ad alcuni aspetti della cultura orientale pre-greca, è lo scenario attuale di gestione politica delle nostre vite nelle cosiddette democrazie avanzate. Il passo a lato di Foucault consiste nel focalizzare ora il problema del governo. Non so se per rispondere ai suoi critici - come ipotizza Michel Senellart, l' ottimo curatore francese dei due volumi - che gli imputavano con insistenza il disinteresse nei confronti di quella che potremmo chiamare la macrofisica del potere. Foucault non appare per nulla convertito a un così netto cambiamento di prospettiva: piuttosto procede seguendo le svolte di un suo progetto che sta investendo tutta la questione del governo di sé e degli altri. La disciplinarità non è esclusa dalla governamentalità - ecco la parola nuova che diventa il filo conduttore a partire dalla metà del corso del 1977-78 - ma certamente questo insieme di condotte (e contro-condotte) chiamato governamentalità, che abbraccia in senso largo i dispositivi di governo che si sono storicamente precisati fino a oggi, e soprattutto i temi della sicurezza e della popolazione, introduce un' attenzione diversa nei confronti dei processi di soggettivazione del potere e insieme, anche, nei confronti di una proposta di riflessione politica chiaramente rivolta alla sinistra francese e europea di quegli anni (e, aggiungerei, anche di oggi). Questa proposta prende con evidenza (nel corso successivo) il nome di liberalismo, certo in una forma non classica, ma in una dimensione di continuo paradosso rispetto all' idea stessa di governo, dunque in una formulazione decisamente critica (seppure ispirata alle teorie tedesche del secondo dopoguerra), tuttavia - secondo Foucault - da intendersi come l' unica ipotesi politica spendibile. «La problematica della governamentalità - scrive Senellart a conclusione della sua nota - si dispiega tra il rifiuto politico del terrorismo e un elogio della sollevazione in nome di una morale anti-strategica». E qui dovrei avere lo spazio per incorniciare i corsi nelle esperienze più propriamente politiche del Foucault del 1977-79, dall' affare Croissant (l' avvocato della cosiddetta «banda Baader» per il quale difende il diritto di asilo) al «reportage di idee» condotto personalmente in Iran alla ricerca di una diversa «spiritualità» politica e sfociante in un articolo-manifesto pubblicato su Le Monde dal titolo Sollevarsi è inutile? Ma questa difesa della «sollevazione», che interrompe lacerandolo il tessuto della logica storica e fa irrompere sulla scena una soggettività irriducibile, non impedisce a Foucault di fissare il proprio interesse sulla coppia libertà-sicurezza e sulla necessità che il governo stabilisca un patto appunto di sicurezza tra sé e la popolazione. Così il liberalismo, nella sua proposta, corrisponde all' instabilità di un paradosso tra libertà prodotta e limiti imposti, che attraversa per intero l' idea di biopolitica e fa sì che tutte le pratiche di governamentalità versino di continuo in una situazione di crisi: sono necessarie e insieme contraddittorie, disciplinano ma al tempo stesso devono produrre libertà e alimentarsi delle cosiddette contro-condotte (sollevazioni incluse). Tornando al ricchissimo materiale analitico, resta che Foucault riesce a farci vedere un oggetto di ricerca nuovo, appunto la governamentalità (che da allora ha innescato numerosi filoni di studio negli Stati Uniti e altrove), di cui afferma: «Essa starebbe allo Stato come le tecniche di segregazione stavano alla psichiatria». Al proposito, tra i moltissimi spunti, vorrei solo indicare qui il lavoro genealogico sulla nozione stessa di governo. Per esempio, nella decisiva lezione dell' 8 febbraio 1978, Foucault ci presenta un arco semantico molto più ampio rispetto all' idea ristretta di governo che abbiamo di solito in mente, e porta la nostra attenzione sul significato di «aprire un percorso» o di «seguire una strada», riconducendoci indietro alla metafora del «guidare un gregge», così come essa agiva prima del pastorato cristiano, e soprattutto nella cultura ebraica veterotestamentaria. Ne ricava una diversa accezione di «territorio» che connette all' idea recente di «popolazione». Mosè, deputato da Dio a guidare il gregge, sa che occorre arrivare a un prato adatto e che, una volta giuntivi, occorre prima far brucare le pecore più giovani e più deboli e solo successivamente quelle capaci di alimentarsi dell' erba più dura. Il pastore non si limita a vegliare ma apre il territorio e deve avere la capacità di governare una giusta distribuzione delle risorse, per tutti e per ciascuno, omnes et singulatim. è chiaro che Foucault intende combinare questa antica metaforica del governo pastorale con le moderne vicissitudini del liberalismo in una società disciplinare, saltando di netto tutta la secolare esperienza cristiana, e leggendo la storia della governamentalità (e la sottostoria delle originarie tecniche di polizia) come lo svolgimento possibile di un' arte di governo capace di rassicurare e di prendersi cura di tutti e di ciascuno. Popolazione e biopolitica sembrano dunque mantenere, ai suoi occhi, una chance politica, un patrimonio di potenzialità che comunque si sono prodotte storicamente e che restano per noi attingibili. - 

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