domenica 30 dicembre 2012

PAUL RABINOW GAYMON BENNETT - CONTEMPORARY EQUIPMENT: A DIAGNOSTIC



PAUL RABINOW GAYMON BENNETT
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CONTEMPORARY EQUIPMENT: A DIAGNOSTIC


INTRODUCTION 

1
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FROM A HISTORY OF THE PRESENT TO AN ANTHROPOLOGY OF THE CONTEMPORARY
2
PROBLEMATIZATION 

EQUIPMENT

FORM 1: ANTIQUE EQUIPMENT 

ùFORM 2: MODERN EQUIPMENT 
10 
FORM 3: CONTEMPORARY EQUIPMENT 
12 
PRACTICING DIAGNOSTICS 
14 
A DIAGNOSTIC OF EQUIPMENTAL PLATFORMS 
17 
FROM REGIMES TO MODES 
17
EQUIPMENTAL PLATFORMS 
19 
TABLES, CATEGORIES, AND CONNECTIONS
20 
EQUIPMENTAL PLATFORMS
24 
APPENDIX OF CONCEPTS 
60

INTRODUCTION

In early May 2007, Rabinow called for “secession,” in Blumenberg’s sense of refusing predominant practices, concepts, and problems, where they prove unhelpful for work on the problematization at hand. Scientifically and ethically, relations among and between the life sciences, human sciences, and ethics need sustained re-thinking and re-working. Such labor cannot be conducted, it seemed to us, unless the adequacy of reigning habits, dispositions, and deliverables are vigorously contested. It was at that point of secession that a period of extremely intense conceptual work began, culminating several months later in the production of a diagnostic grid for re-thinking relations among the life sciences, human sciences, and ethics (http://bios-technika.net/diagnostics-grid. html). This diagnostic grid has remained in the background, functioning as a powerful conceptual tool for the practice of orientation,production, and verification.page3image7072
What follows in the first section of this appendix should be read as a kind of “users-guide” to our human practices diagnostic. The diagnostic (see the second part of the appendix) is composed of four tables consisting of categories and conceptual distinctions. It is designed to aid inquiry, and, where appropriate and possible, the design and composition of equipment. The tables, categories, and distinctions are not representational. In fashioning them we did not suffer the conceit often attributed to the functionalist projects of the early 20th century; we do not presume that our categories are comprehensive, and thereby adequate, if abstract, distillations of the real essence of things across comparative domains. 
DIAGNOSIS
Diagnosis has two functions.The first is analytic. It functions to lay out tables of categories.That is to say, a diagnosis serves a critical function; it facilitates the work of decomposition of complex wholes in order to test the logic on the basis of which composition has taken place. In diagnosis, the work of decomposition cannot be an end-in- itself. Rather, analysis must be followed by recom- position.This synthetic work is the second function of a diagnosis.
Cluster 1: Diagnosing Equipment: Diagnosis,Affect, Truth Claim, Ethical Mode, Equipment
Cluster 2: Critical position for Human Practices: Diagnosis, Contemporary, History of the Present, Problematization, Remediation
Cluster 3: Diagnosis of Political Spirituality: Diagnosis, Salva- tion,Veridiction, Jurisdiction, Political Spirituality

Disobbedienza e processi di soggettivazione


Alfabeta2

n. 25, dicembre 2012

Maurizio Lazzarato

Dopo la fine della rappresentanza

Disobbedienza e processi di soggettivazione

Le forme collettive di mobilitazione politica contemporanea, che si tratti di sommosse urbane o di lotte sindacali, che siano pacifiche o violente, sono attraversate da una stessa problematica: il rifiuto della rappresentanza, la sperimentazione e l’invenzione di forme di organizzazione ed espressione in rottura con la tradizione politica moderna fondata sulla delega del potere a dei rappresentanti del popolo o delle classi. Il rifiuto di delegare la rappresentanza di ciò che è divisibile ai partiti e ai sindacati e la rappresentanza di ciò che è comune allo Stato, trova la sua origine in una nuova concezione dell’azione politica derivata dalla «rivoluzione» del ’68.
Le mobilitazioni che sorgono un po’ ovunque nel mondo affermano che all’interno della democrazia rappresentativa «non ci sono alternative» possibili.
Il rifiuto, la disobbedienza che abitano queste lotte cercano e sperimentano delle nuove azioni politiche all’interno della crisi. Ma di quale crisi si tratta e quali tipi di organizzazione politica si esprimono nella crisi?
In un seminario del 1984, Félix Guattari afferma che la crisi che l’Occidente attraversa dall’inizio degli anni Settanta, prima di essere una crisi economica, prima di essere una crisi politica, è una crisi di produzione di soggettività. Come intendere quest’affermazione?
Se il capitalismo «propone dei modelli (di soggettività) come l’industria automobilistica propone delle nuove serie» allora, la posta in gioco più grande di una politica capitalista risiede nell’articolazione di flussi economici, tecnologici e sociali con la produzione di soggettività, in modo tale che l’economia politica non sia altro che «economia soggettiva». Questa ipotesi di lavoro merita di essere ripresa e prolungata nella situazione contemporanea a partire da una constatazione: il neoliberalismo ha fallito nell’articolare questo rapporto.
La generalizzazione della soggettivazione imprenditoriale, che si esprime nella volontà di trasformare ogni individuo in impresa, rivela alcuni paradossi. L’autonomia soggettiva, l’attivazione, l’impegno soggettivi, costituiscono nuove forme di impiego e quindi, propriamente parlando, una eteronomia.
D’altra parte, l’ingiunzione all’azione, alla presa d’iniziativa e al rischio individuale, sfociano nella depressione, malattia del secolo, espressione del rifiuto di assumere un’omologazione e un impoverimento dell’esistenza portato dalla «riuscita» individuale del modello imprenditoriale.
Come ci addentriamo nella crisi, aperta dai tracolli «finanziari» a ripetizione, il capitalismo abbandona la sua retorica della società della conoscenza o dell’informazione, e le sue mirabolanti soggettivazioni (i lavoratori cognitivi, i manipolatori di simboli, i creativi sconfitti e i vincenti). Una volta che le promesse di arricchimento di tutti, attraverso il credito e la finanza, sono crollate, non rimane che una politica di salvaguardia dei creditori, proprietari dei titoli del «capitale».
Per affermare la centralità della proprietà privata, l’articolazione tra «produzione» e «produzione di soggettività» si crea a partire dal debito e dall’uomo indebitato. Nell’economia del debito, il capitale agisce sempre come punto di soggettivazione, ma non solamente per costituire gli uni come capitalisti e gli altri come lavoratori, ma anche e soprattutto per identificarli in «creditori» e in «debitori». Fallimento economico e fallimento nella produzione delle figure soggettive del proprietario, dell’azionista, dell’imprenditore, vanno di pari passo. Questi fallimenti trovano la loro origine nel doppio rifiuto delle figure soggettive neoliberali: rifiuto di divenire «capitale umano», e nella crisi, rifiuto di divenire «uomo indebitato».
A questi rifiuti proletari e a questa impasse capitalista, i partiti e i sindacati di «sinistra» non forniscono alcuna risposta, poiché non dispongono più di soggettività di ricambio da proporre. Le stesse teorie critiche contemporanee falliscono pensando al rapporto tra capitalismo e processo di soggettivazione. Il capitalismo cognitivo, la società dell’informazione, il capitalismo culturale (Rifkin) rappresentano l’articolazione tra produzione e soggettività in maniera molto riduttiva. La loro pretesa di costituire un paradigma egemonico per la produzione e la produzione di soggettività è sconfessata dal fatto che, il destino della lotta di classe, per come si mostra con la crisi, non sembra giocarsi intorno alla conoscenza, all’informazione e alla cultura.
Quali sono, quindi, le condizioni per una rottura politica ed esistenziale nell’epoca la produzione di soggettività costituisce la prima, e la più importante, delle produzioni capitaliste? Quali sono gli strumenti specifici della produzione di soggettività per eludere la sua fabbricazione, industriale e seriale, organizzata dalle imprese e dallo Stato? Quali modalità di organizzazione costruire per un processo di soggettivazione che sfugga sia all’assoggettamento, sia all’asservimento?
Negli anni Ottanta Foucault e Guattari, attraverso percorsi differenti, designano la produzione di soggettività e la costituzione del «rapporto con il sé» come i problemi politici contemporanei che da soli, forse, possono indicare delle vie d’uscita dall’impasse in cui siamo impigliati.
Per Foucault partire dalla «cura di sé» non significa inseguire l’ideale «dandy» di una «vita bella», ma porre la questione di un intreccio tra «estetica dell’esistenza» e una politica che le corrisponda. I problemi di «una vita altra e un mondo altro» si pongono insieme, a partire da una vita militante, la cui premessa è costituita dalla rottura delle convenzioni, delle abitudini, dei valori stabiliti. Il paradigma estetico di Guattari non incita nemmeno a un’estetizzazione del sociale e del politico, ma a fare della produzione di soggettività la pratica e la preoccupazione principale di una nuova modalità di militanza e di un nuovo modo di organizzarsi politicamente.
I processi di soggettivazione e le loro modalità di organizzazione hanno sempre dato luogo a dibattiti cruciali all’interno del movimento operaio che sono stati occasione di rottura e di divisioni politiche tra «riformisti» e «rivoluzionari».
Non possiamo comprendere la storia del movimento operaio se ci rifiutiamo di vedere le «guerre di soggettività» (Guattari) a cui ha portato. «Il tipo di operaio della Comune di Parigi è diventato talmente “mutante” che non c’è altra soluzione per la borghesia che sterminarlo. Abbiamo liquidato la Comune di Parigi, come in altre epoche le riforme di Saint Barthélémy». I bolscevichi si sono posti esplicitamente la questione dell’invenzione di un nuovo tipo di soggettività militante, che, tra l’altro, doveva rispondere al fallimento della Comune.
Interrogare i processi di soggettivazione politica partendo dal mettere in luce la dimensione della «micro-politica» (Guattari) e della «microfisica» del potere (Foucault) non esonera dalla necessità di attraversare e riconfigurare la dimensione macro-politica. «Di due cose l’una o l’altra: o qualcuno, chiunque, produrrà dei nuovi strumenti di produzione di soggettività che siano essi bolscevichi, maoisti o non importa chi; oppure la crisi continuerà ad accentuarsi».
Questo passaggio alla macro-politica che Guattari invoca in questa citazione, mi sembra tanto più necessario in quanto siamo in una situazione totalmente differente da quella degli anni Settanta. In quel periodo l’urgenza era piuttosto quella di uscire da una macro-politica pietrificata e sclerotizzata visibile nei programmi dei partiti comunisti e dei sindacati. Oggi, dato che queste forze sono o sparite o completamente integrate nella logica del capitalismo, quello che importa è inventare, sperimentare e affermare una macro-politica capace, da una parte, di farci uscire dalla democrazia rappresentativa (politica e sociale) e di collegarci a quella che Guattari definisce «rivoluzione molecolare». Dall’altra parte, bisognerebbe riattivare l’utilizzo della forza, di un potere di blocco e sospensione dell’assoggettamento e dell’asservimento, che possa giocare la stessa funzione dello sciopero nel capitalismo industriale. Senza questo la frangente neoliberale applicherà integralmente il suo programma: ridurre i salari al livello della sopravvivenza, ridurre i servizi dello Stato Sociale (Welfare Stare) al minimo, privatizzare tutto ciò che resta ancora nel dominio «pubblico», facendo scivolare la popolazione nel processo regressivo dell’uomo indebitato.
Guattari a suo modo, non è solamente rimasto fedele a Marx, ma anche a Lenin. Sicuramente, gli strumenti di produzione di soggettività che il leninismo ha creato (il partito, la concezione della classe operaia come avanguardia, il «militante di professione» ecc.) non sono più adatti alla composizione di classe attuale. Ma ciò che Guattari mantiene della sperimentazione leninista è la metodologia: la necessità di rottura con la «social-democrazia», la costruzione di strumenti di innovazione politica che si dispiegano sulle modalità di organizzazione della soggettività. Per Guattari l’affermazione di questa autonomia politica è stata, prima di tutto, espressa dalla rottura soggettiva praticata dalla Prima Internazionale che ha letteralmente inventato una classe operaia che ancora non esisteva (il comunismo ai tempi di Marx si appoggiava essenzialmente sugli artigiani e i «compagni»). Nel capitalismo, i processi di soggettivazione devono a loro volta articolarsi e liberarsi dai flussi economici, sociali, politici, macchinici. Le due operazioni sono indispensabili: partire dalla presa che l’asservimento e l’assoggettamento esercitano sulla soggettività e organizzarne la rottura, che è sempre un’invenzione e una costituzione del sé.
Le regole della produzione del sé sono quelle «facoltative» e processuali che inventiamo costruendo dei «territori sensibili» e una singolarizzazione della soggettività a livello micro-politico e delle disposizioni collettive di enunciazione a livello macro-politico. Da qui il ricorso, non tanto a degli strumenti e a dei paradigmi cognitivi, informazionali o linguistici, ma a degli strumenti e a dei paradigmi politici che sono etico-estetici, il «paradigma estetico» di Guattari e l’«estetica dell’esistenza» di Foucault.
Per produrre un nuovo discorso, una nuova conoscenza, una nuova politica, bisogna superare un punto innominabile, un punto di non-racconto assoluto, di non sapere, di non cultura, di non conoscenza. Da qui l’assurdità (tautologica) di pensare la produzione come produzione di conoscenza a mezzo di conoscenze. Le teorie del capitalismo cognitivo, della società dell’informazione, del capitalismo culturale, che si propongono come teorie dell’innovazione e della creazione, falliscono precisamente nel pensare il processo attraverso cui si fanno la «creazione» e l’«innovazione», poiché il linguaggio, la conoscenza, l’informazione e la cultura sono largamente insufficienti a questi fini.
La soggettivazione politica, per prodursi, deve passare necessariamente da questi momenti di sospensione dei significati dominanti e dalla neutralizzazione del meccanismo di asservimento macchinico. Lo sciopero, la rivolta, la sommossa, le lotte costituiscono dei momenti di rottura e sospensione del tempo cronologico, di neutralizzazione di assoggettamenti e di asservimenti, dove si manifestano, non tanto le soggettività vergini e immacolate, ma i focolai, le emergenze, le cariche di soggettivazione, la cui attualizzazione e proliferazione dipende da un processo di costruzione che deve articolare, senza passare per le tecniche di rappresentazione, il rapporto tra «produzione (desiderante)» e «soggettivazione».
Se la crisi non produce altro, d’ora in poi, che assoggettamenti e asservimenti negativi e regressivi (l’uomo indebitato), se il capitalismo è incapace di articolare produzione e produzione di soggettività in altro modo, se non riaffermando la salvaguardia dei titoli di proprietà del capitale, allora gli strumenti teorici devono essere capaci di pensare le condizioni di una soggettivazione politica che sia anche una mutazione esistenziale in rottura con il capitalismo, all’interno della sua crisi che è già divenuta storica.

giovedì 27 dicembre 2012

Jerremy W. Crampton, Stuart Elden (Eds.): Space, Knowledge and Power Foucault and Geography - Ashgate, Uk, November 2012 (E.book, Illustrated edition)



Previous Ed: paperback February 2007; hardback February 2007

Michel Foucault’s work is rich with implications and insights concerning spatiality, and has inspired many geographers and social scientists to develop these ideas in their own research. This book, the first to engage Foucault’s geographies in detail from a wide range of perspectives, is framed around his discussions with the French geography journal Hérodote in the mid 1970s. The opening third of the book comprises some of Foucault’s previously untranslated work on questions of space, a range of responses from French and English language commentators, and a newly translated essay by Claude Raffestin, a leading Swiss geographer. 

The rest of the book presents specially commissioned essays which examine the remarkable reception of Foucault’s work in English and French language geography; situate Foucault’s project historically; and provide a series of developments of his work in the contemporary contexts of power, biopolitics, governmentality and war. Contributors include a number of key figures in social/spatial theory such as David Harvey, Chris Philo, Sara Mills, Nigel Thrift, John Agnew, Thomas Flynn and Matthew Hannah. Written in an open and engaging tone, the contributors discuss just what they find valuable – and frustrating – about Foucault’s geographies. This is a book which will both surprise and challenge. 


Contents: Introduction: Space, knowledge and power: Foucault and geography, Stuart Elden and Jeremy W. Crampton. Part 1 Questions: Some questions from Michel Foucault to Hérodote, Michel Foucault (translated by Stuart Elden). Part 2 Francophone Responses – 1977: Hérodote editorial, translated by Gerald Moore; Response: Jean-Michel Brabant (translated by Gerald Moore); Response: Alain Joxe (translated by Gerald Moore); Response:Jean-Bernard Racine and Claude Raffestin (translated by Gerald Moore); Response: Michel Riou (translated by Gerald Moore). Part 3 Anglophone Responses – 2006: The Kantian roots of Foucault's dilemmas, David Harvey; Geography, gender and power, Sara Mills; Overcome by space: reworking Foucault, Nigel Thrift; Foucault among the geographers, Thomas Flynn. Part 4 Contexts: Strategy, medicine and habitat: Foucault in 1976, Stuart Elden; Formations of 'Foucault' in Anglo-American geography: an archaeological sketch, Matthew Hannah; Catalysts and converts: sparking interest for Foucault among Francophone geographers, Juliet J. Fall; Could Foucault have revolutionized geography?, Claude Raffestin (translated by Gerald Moore). Part 5 Texts: The incorporation of the hospital into modern technology, Michel Foucault (translated by Edgar Knowlton Jr., William J. King, and Stuart Elden); The meshes of power, Michel Foucault (translated by Gerald Moore); The language of space, Michel Foucault (translated by Gerald Moore); The force of flight, Michel Foucault (translated by Gerald Moore); Questions on geography, Michel Foucault (translated by Colin Gordon). Part 6 Development: Geographies of governmentality, Margo Huxley; The history of medical geography after Foucault, Gerry Kearns; Maps, race and Foucault: eugenics and territorialization following World War I, Jeremy W. Crampton; Beyond the Panopticon? Foucault and surveillance studies, David Murakami Wood; Beyond the European province: Foucault and postcolonialism, Stephen Legg; Foucault, sexuality, geography, Philip Howell; The problem with Empire, Mathew Coleman and John A. Agnew; 'Bellicose history' and 'local discursivities': an archaeological reading of Michel Foucault's Society Must be Defended, Chris Philo. Index.

Dr Jeremy W. Crampton is from the Department of Geosciences at Georgia State University, USA. Dr Stuart Elden is from the Department of Geography at Durham University, UK.

'For anyone interested in Foucault, geography and space, this is the essential reference work. This outstanding and comprehensive collection brings together for the first time, not only original texts by Foucault, but also the work of French and Anglophone commentators and authorities in the area. An invaluable and beautifully organized resource, highly recommended for both students and scholars alike.' 
Clare O'Farrell, Queensland University of Technology, Australia 


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domenica 23 dicembre 2012

Henri-Paul Fruchaud e Jean-François Bert, « Un inédit de Michel Foucault : « La Parrêsia »@ Anabases, 16, 2012


couverture Anabases16



















Anabases, 16, 2012



Michel Foucault, « La Parrêsia », Anabases, 16 | 2012, 157-188



Je te remercie beaucoup de m’avoir invité. Je viens ici, vous savez, en solliciteur : je veux dire que, jusqu’il y a quatre ou cinq ans, ma spécialité, enfin ce qui était le domaine de mon travail, ne touchait guère à la philosophie antique ; et puis c’est à la suite d’un certain nombre de zigzags, de crochets ou de marches régressives dans le temps que j’en suis arrivé à me dire que c’était tout de même très intéressant. Donc je viens là en train de faire un travail. Henri Joly a bien voulu, un jour où je lui posais des questions, lui expliquais mes problèmes, me dire que vous accepteriez peut-être d’en discuter avec moi, dans l’état d’imperfection où se trouve mon travail pour l’instant. C’est des matériaux, c’est des références à des textes, des indications ; l’exposé que je vais vous faire est donc lacunaire et vous serez très gentils si vous voulez bien, premièrement pousser des cris quand je suis décati, m’interrompre quand vous ne comprenez pas ou que ça ne marche pas et puis à la fin en tout cas me dire ce que vous pensez. Voilà donc d’abord comment j’en suis venu à me poser ce genre de questions. Ce que j’avais étudié depuis au fond assez longtemps, c’était la question de l’obligation de dire vrai : qu’est-ce que c’est que cette structure éthique interne au dire-vrai qui fait que, en dehors, si vous voulez, des nécessités se référant à la structure du discours ou à la référence du discours, quel est ce lien qui fait que quelqu’un est obligé à un moment donné de dire vrai ?
Pour dire les choses très schématiquement, il me semble [...] que ce soit un mode de vie, un mode de vie comme pourrait l’être par exemple le mode de vie philosophique. Il est absolument certain que le mode de vie philosophique implique absolument la parrhêsia ; Il ne peut pas y avoir de philosophe qui ne soit un parhrèsiaste ; mais le fait d’être parrhèsiaste ne coïncide pas exactement avec le mode de vie philosophique. Je crois que – en tout cas c’est ce que je voudrais vous suggérer – il faudrait envisager la parrhêsia sous l’angle de ce qu’on appelle maintenant une pragmatique du discours, c’est-à-dire qu’il faudrait considérer la parrhêsia comme l’ensemble des caractères qui fondent en droit et qui assurent en efficacité les discours de l’autre dans la pratique du souci de soi...
Voila donc d’abord comment j’en suis venu à me poser ce genre de questions. Ce que j’avais étudié depuis au fond assez longtemps, c’était la question de l’obligation de dire vrai : qu’est-ce que c’est que cette structure éthique interne au dire-vrai qui fait que, en dehors, si vous voulez, des nécessités se référant à la structure du discours ou à la référence du discours, quel est ce lien qui fait que quelqu’un est obligé à un moment donné de dire vrai ? Pour dire les choses très schématiquement, il me semble [...] que ce soit un mode de vie, un mode de vie comme pourrait l’être par exemple le mode de vie philosophique. Il est absolument certain que le mode de vie philosophique implique absolument la parrhêsia; il ne peut y avoir de philosophe qui ne soit un parhrèsiaste;mais le fait d’être parrhèsiaste ne coïncide pas exactement avec le mode de vie philosophique. Je crois que – en tout cas c’est ce que je voudrais vous suggérer – il faudrait envisager la parrhêsia comme l’ensemble des caractères qui fondent en droit et qui assurent en efficacité les discours de l’autre ans la pratique du souci de soi...

Un inédit de Michel Foucault : « La Parrêsia ». Note de présentation


Henri-Paul Fruchaud et Jean-François Bert

p. 149-156

C’est à l’invitation d’Henri Joly, spécialiste de la philosophie antique, que Michel Foucault prononce au mois de mai 1982 à l’université de Grenoble une conférence consacrée à la parrêsiapeu de temps après la fin du cours au Collège de France de l’année 1982, dans lequel cette notion apparaît pour la première fois dans ses travaux. Henri Joly connaissait Foucault depuis son passage à Clermont Ferrand, et comme le précise Pascal Engel : « Le spécialiste de Platon qu’était Joly s’intéressait au “retour aux Grecs” de Foucault et ce dernier avait accepté de venir donner un exposé. Nous allâmes ensemble le chercher à la gare, en l’attendant à la sortie principale, mais là point de Foucault. La gare de Grenoble a une seconde sortie, quasi clandestine, qu’on prend rarement. Michel Foucault trouva le moyen de passer par là et nous eûmes la surprise de l’entendre nous héler derrière nous. Il était, comme le dit une page célèbre de L’Archéologie du savoir, “ressurgi ailleurs” et “en train ...

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Michele Spanò: L'ignota tragedia della soggettività @ Il Manifesto, Ita, 15 dicembre 2012


Pubblicati due volumi che raccolgono altrettanti seminari tenuti dal filosofo francese alla Sorbona e all'università cattolica di Lovanio negli anni Ottanta. Tasselli che vanno a comporre un percorso di ricerca attorno al rapporto tra verità e governo

Si racconta che Michel Foucault, interrogato da un giovane studente sui fatti del terrorismo italiano, abbia risposto: «L'importante, oggi, è soprattutto San Crisostomo». L'aneddoto è il miglior viatico alla lettura del corso «Del governo dei viventi» (tenuto presso il Collège de France tra il 1979 e il 1980. il volume è stato pubblicato con il titolo Du gouvernement des vivants, Seuil, pp. 400, euro 26) e del seminario "Mal faire dire vrai", tenuto nel 1981 presso l'Università di Lovanio e pubblicato dalla Presses Universitaires de Louvain (euro 30). 


I due testi, che una felice congiuntura editoriale ha voluto fossero pubblicati insieme, sono infatti un'occasione preziosa per tornare sulle questioni - centrali nell'ultima riflessione foucaultiana - del rapporto tra governo e verità, e, dunque, sulla relazione di assoluta transitività che lega, nell'immanenza di un'ellisse, assoggettamento e soggettivazione, etica e politica (e - come emerge da questi testi - perfino quella bestia nera foucaultiana che è il diritto). La «quinta» su cui si apre il corso è una sala del palazzo imperiale di Settimio Severo. L'attenzione di Foucault è catturata dal curioso rapporto tra uno spazio destinato all'esercizio del potere e all'amministrazione della giustizia e il suo soffitto, coperto dal cielo stellato, dipinto celando la configurazione astrale che diede i natali all'imperatore. La volta del cielo trapunta di stelle testimonierebbe di un più decisivo rapporto tra il logos cosmico e le sentenze pronunciate dall'imperatore: il governo di Settimio Severo segue una curva che va dagli astri al mondo, qualificandosi, dunque, come uno speciale modo di esercitare il potere cui si accompagna, o attraverso cui si esprime, la manifestazione dell'ordine vero del mondo. Questa bizzarra ouverture offre il destro a Foucault per introdurre un tema che ha più di qualche elemento di continuità con le sue riflessioni precedenti e che si rivelerà in ogni caso decisivo in quell'opera di infinito ritorno sul proprio gesto filosofico. Se, anche nei corsi dedicati alla governamentalità, la ricerca foucaultiana era stata centrata sull'analisi delle ragioni per cui non è possibile governare senza possedere un'accurata conoscenza dell'ordine delle cose e della condotta degli uomini, questa necessità di natura economica e amministrativa si rivela solo una prestazione possibile di quella più cruciale relazione che lega l'esercizio del potere alla manifestazione della verità. 



Un antidoto all'utilitarismo
La verità del cielo stellato di Settimio Severo eccede infatti le conoscenze utili al governo. Si tratta, perciò, di una verità esorbitante e supplementare, il cui modo di manifestarsi non risponde che in minima parte ai modelli epistemici classici. Esisterebbe infatti - aldilà di ogni conoscenza razionale - una manifestazione pura del vero: non una verità da stabilire o da fissare e neppure una verità che semplicemente si oppone al falso. La verità di cui si tratta qui è quella che sorge sullo sfondo dell'ignoto e dunque l'operazione che la concernerà non risponderà all'ordine dell'organizzazione di un sapere in funzione dell'esercizio del governo; essa investirà piuttosto un rituale di manifestazione della verità che ha bensì un rapporto con l'esercizio del potere, ma assai diverso tanto dalla semplice utilità che dal puro calcolo.
Quella che Foucault addita è dunque una fondamentale coappartenza tra esercizio del potere e manifestazione di verità. Non c'è egemonia senza aleturgia (ossia una manifestazione rituale di verità): laddove c'è del potere e laddove si vuole che ce ne sia, là deve esservi manifestazione di verità. L'ipotesi che guida il corso è dunque quella di indagare i modi e le forme di un governo degli uomini attraverso la verità. Operazione che finirà per implicare anche la sovversione di quel nesso tra sapere e potere che tanta parte aveva avuto nelle ricerche foucaultiane. L'imperativo dell'indagine sembra quello, testualmente, di sbarazzarsi di questa griglia interpretativa. Se i corsi precedenti avevano messo in cantiere la revisione del concetto di potere attraverso quello di governamentalità, prima, e di governo, dopo, si tratta adesso di cimentarsi con uno speculare rimaneggiamento della nozione di sapere nella direzione del problema della verità: non si possono infatti dirigere gli esseri umani e le loro condotte senza compiere delle operazioni nell'ordine del vero, tali da eccedere sempre ciò che è necessario e utile. Foucault sembra insomma operare una correzione rispetto a La volontà di sapere, arrivando a sostenere che, se il potere non si riduce alla sua dimensione biopolitica, è proprio in virtù di questo cerchio aleturgico costantemente tracciato attorno al proprio esercizio.

La peripezia di Edipo
Seguendo questa intuizione - tanto nel corso che nel seminario - Foucault propone una lettura aleturgica di Edipo re. Se ogni tragedia greca è un'aleturgia, allora Edipo re è una sorta di aleturgia di secondo grado: essa allo stesso tempo produce e rappresenta (performa) una veridizione. C'è di più: giusta la riduzione aristotelica degli elementi chiave della tragedia alla peripezia e al riconoscimento, l'Edipo propone un percorso à rebours che va dal riconoscimento (della verità) alla peripezia (il modo in cui la verità si è prodotta). E l'intento foucaultiano è precisamente quello di isolare l'insieme di tecniche e procedure attraverso le quali si produce e si manifesta la verità della tragedia nell'intreccio drammaturgico di verità e veridizioni multiple: il potere - è questa la lezione di Edipo - si esercita attraverso una manifestazione di verità secondo la forma della soggettività, con effetti di salvezza per ciascuno e per tutti. 
Proprio il rapporto tra verità e soggettività si guadagna il centro della scena del corso. Se esiste un modo di affrontare filosoficamente la politica che consiste nel domandarsi che cosa sia possibile dire del potere che lo assoggetta una volta che il soggetto si sia volontariamente sottomesso al legame con la verità attraverso un atto di conoscenza; esiste anche la possibilità di domandarsi, muovendo non già dal legame volontario alla verità quanto dalla stessa questione del potere, quale sia il rapporto tra il potere e il soggetto di conoscenza e quali effetti ciò abbia sul legame di verità cui questi si trova involontariamente sottomesso.
Non si tratta di allestire una critica della rappresentazione centrata sui dualismi del vero e del falso, scambiandoli per indicatori della legittimità del potere, ma di cogliere, nel movimento di separazione dal potere, indizi sul rapporto tra soggetto e verità. Non si tratta di un'epochè, ma del tentativo di non considerare nessun potere come dato, evidente o inevitabile, e quindi di non attribuirgli mai nessuna preventiva o intrinseca legittimità. Il rapporto tra soggetto e verità potrà essere indagato mostrando come in ultima istanza le relazioni di potere si reggano sul nulla. 
Foucault sta additando nulla di meno che la costitutiva contingenza di ogni rapporto di potere. Si tratta di un'attitudine insieme teorica e pratica che concerne la non accettabilità del potere come principio di intelligibilità del sapere. Foucault decide di chiamarla «anarcheologia»: se nessun concetto è necessario o essenziale, è tuttavia possibile e opportuno analizzare il fragile tessuto storico entro cui esso si situa. Si avrà così una triangolazione che conduce dalla pratica ai suoi effetti sulla struttura dei saperi, fino agli effetti che questi ultimi imprimono sull'esperienza stessa del soggetto.
La tecnologia del potere
Sembrano così - condensati nel bizzarro concetto di anarcheologia - riapparire e chiarirsi tutti gli elementi che compongono il composito quadro del metodo foucaultiano: il rifiuto degli universali, l'antiumanismo metodologico, l'analisi tecnologica dei meccanismi di potere e il continuo spostamento in avanti dei punti di non accettabilità. L'anarcheologia del sapere non è uno studio globale delle relazioni tra potere politico e conoscenza scientifica, ma un'analisi cocciuta dei regimi di verità e delle relazioni che legano la manifestazione di verità e le loro procedure ai soggetti che ne sono gli operatori, i testimoni o gli oggetti. Essa è quindi una storia della molteplicità dei regimi di verità e dei modi specifici in cui si istituisce il legame tra manifestazione e oggetto di verità che ciascuno di essi comporta. 
Foucault conduce perciò uno studio - o per lo meno la sua preparazione - di tutti quegli esercizi del potere che obbligano gli individui a farsi protagonisti di procedure aleturgiche. L'indagine si concentra sulla natura del rapporto tra soggetto di potere e soggetto attraverso il quale e per il quale la verità si manifesta. Questa inserzione del soggetto nel vivo dell'aleturgia verrà definito da Foucault - con un prestito dal lessico della penitenza - actus veritatis. L'esercizio del potere come governo degli uomini richiede, quindi, non solo atti di obbedienza, ma anche atti di verità e alla prima dovrà, di conseguenza, sempre accompagnarsi uno speciale modo di manifestare la propria verità di soggetti.
Se l'economia dogmatica è stata una forma eminente di pensare il rapporto tra governo degli uomini e regime di verità, allora il cristianesimo costituirà il quadro di verifica dell'ipotesi. Il regime di verità istituito dal cristianesimo non può infatti ridursi al dogma e alla credenza. Insieme e oltre al contenuto della credenza, esiste un atto di verità e, oltre e insieme alla professione di fede, esiste l'obbligo per gli individui di stabilire con sé stessi un rapporto di verità e insieme di produrre la propria verità con effetti che esorbitano l'ordine della conoscenza. 
L'atto di verità come atto di confessione è l'operatore esemplare che permetterà a Foucault di mostrare la tensione e il rapporto tra due regimi di verità interni al cristianesimo. Se la fede è l'adesione a una verità esterna e inattingibile, il cui piano di soggettivazione coincide con l'accettazione di un contenuto, nel caso della confessione la verità è conquistata grazie a uno scandaglio del fondo della propria anima. Foucault si propone quindi un più approfondito attraversamento del cristianesimo, cui - in un progetto che sembra solo parzialmente rispettato dal dettato del corso - cerca di dare corso attraverso lo studio dell'esame di sé, della confessione e della remissione dei peccati.

Tra penitenza e mortificazione
Il rapporto tra soggettività e verità implica un'organizzazione complessa di tecniche differenti utili a legare l'obbligo alla verità con la soggettività: la probatio sui nel battesimo, la pubblicatio sui nella penitenza e l'esplorazione degli arcana coscientiae nell'esame e nella direzione. Si tratta, nei tre casi, sempre di una relazione che associa la mortificazione di sé, il rapporto con un altro e la verità. Questa articolazione definisce i confini di una speciale forma di obbligazione che non avrebbe mai finito di attraversare la storia della soggettività, modellandola e trasformandola fino a oggi. Soggettività e verità non comunicano soltanto nell'accesso del soggetto alla verità, ma anche attraverso la flessione del soggetto sulla sua propria verità, mediata da speciali esercizi capaci di metterla in parola. Non è necessario essere Edipo, sembra sostenere Foucault, per essere obbligati a operare la propria autoaleturgia.
Questa istituzionalizzazione dei rapporti tra soggettività e verità attraverso l'obbligo a dire la verità su se stessi, non si sostiene tuttavia senza l'organizzazione di una forma specifica di potere. Foucault, chiudendo il corso, ritorna sul quadro che - nella stanza di Settimio Severo - rappresentava l'ordine celeste e quindi la verità del mondo, tenendo al contempo nascosta la configurazione astrale che celava il destino di Settimio. Se l'imperatore romano - con il cielo stellato sopra di lui - domandava così il segno e la promessa della perennità del suo potere a una verità del mondo depurata dalla verità su di sé, il cristiano, che non ha la verità del mondo sopra la testa, ma la verità di sé nel fondo del cuore, è perciò obbligato a manifestarla a un altro, secondo i modi e le forme di un'obbedienza che prolunga la sua ombra sulla nostra stessa contemporaneità. 
Quella «politica di noi stessi» su cui Foucault avrebbe cominciato a lavorare negli stessi anni, immaginando pratiche di soggettivazione all'altezza delle tecniche di assoggettamento che le fronteggiano, domanda di incominciare a disobbedire. In primo luogo a noi stessi.

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1) BlogPic: Ioannis Chrysostomos a.k.a. San Giovanni Crisostomo

sabato 22 dicembre 2012

Who was Pierre Rivière? @ Emotion, Space and Society, Volume 5, Issue 4, November 2012



Volume 5, Issue 4, November 2012, Pages 207–215
Pierre Rivière

Who was Pierre Rivière? Introduction to the special issue

    Abstract

    Foucault's (1975) edited book, I, Pierre Rivière, having slaughtered my mother, my sister and my brother… A case of parricide in the 19th century, includes the court documents and newspaper reports from the 1835 trial of Pierre Rivière, Pierre Rivière's memoir written while in prison, and the “analytic notes” written by Foucault and his colleagues. Whereas the court focused on the question of whether Pierre Rivière was of sane mind or not, Foucault and his colleagues sought to avoid the closure that such categorical thinking invites the reader into. This paper introduces the story of Pierre Rivière, and opens up some of the questions to be addressed in this special issue. The papers examine the memoir, the accompanying documents, and Foucault's and his colleagues' take on them, and reopen discussion of the Pierre Rivière case and its contemporary twenty-first century relevance, using a combination of both philosophical ethnography and arts-based enquiry. These contemporary papers are based upon a series of interdisciplinary workshops and seminars that took place at the University of Bristol during 2010. In this introductory paper we ask what was the emotional geography of this young man who engaged in such an unthinkable act? And how did that geography intersect with the emotional geography of his village in France in 1835, and what does it still have to tell us about our own contemporary society?