Si racconta che Michel Foucault, interrogato da un giovane studente sui fatti del terrorismo italiano, abbia risposto: «L'importante, oggi, è soprattutto San Crisostomo». L'aneddoto è il miglior viatico alla lettura del corso «Del governo dei viventi» (tenuto presso il Collège de France tra il 1979 e il 1980. il volume è stato pubblicato con il titolo Du gouvernement des vivants, Seuil, pp. 400, euro 26) e del seminario "Mal faire dire vrai", tenuto nel 1981 presso l'Università di Lovanio e pubblicato dalla Presses Universitaires de Louvain (euro 30).
I due testi, che una felice congiuntura editoriale ha voluto fossero pubblicati insieme, sono infatti un'occasione preziosa per tornare sulle questioni - centrali nell'ultima riflessione foucaultiana - del rapporto tra governo e verità, e, dunque, sulla relazione di assoluta transitività che lega, nell'immanenza di un'ellisse, assoggettamento e soggettivazione, etica e politica (e - come emerge da questi testi - perfino quella bestia nera foucaultiana che è il diritto). La «quinta» su cui si apre il corso è una sala del palazzo imperiale di Settimio Severo. L'attenzione di Foucault è catturata dal curioso rapporto tra uno spazio destinato all'esercizio del potere e all'amministrazione della giustizia e il suo soffitto, coperto dal cielo stellato, dipinto celando la configurazione astrale che diede i natali all'imperatore. La volta del cielo trapunta di stelle testimonierebbe di un più decisivo rapporto tra il logos cosmico e le sentenze pronunciate dall'imperatore: il governo di Settimio Severo segue una curva che va dagli astri al mondo, qualificandosi, dunque, come uno speciale modo di esercitare il potere cui si accompagna, o attraverso cui si esprime, la manifestazione dell'ordine vero del mondo. Questa bizzarra ouverture offre il destro a Foucault per introdurre un tema che ha più di qualche elemento di continuità con le sue riflessioni precedenti e che si rivelerà in ogni caso decisivo in quell'opera di infinito ritorno sul proprio gesto filosofico. Se, anche nei corsi dedicati alla governamentalità, la ricerca foucaultiana era stata centrata sull'analisi delle ragioni per cui non è possibile governare senza possedere un'accurata conoscenza dell'ordine delle cose e della condotta degli uomini, questa necessità di natura economica e amministrativa si rivela solo una prestazione possibile di quella più cruciale relazione che lega l'esercizio del potere alla manifestazione della verità.
Un antidoto all'utilitarismo
La verità del cielo stellato di Settimio Severo eccede infatti le conoscenze utili al governo. Si tratta, perciò, di una verità esorbitante e supplementare, il cui modo di manifestarsi non risponde che in minima parte ai modelli epistemici classici. Esisterebbe infatti - aldilà di ogni conoscenza razionale - una manifestazione pura del vero: non una verità da stabilire o da fissare e neppure una verità che semplicemente si oppone al falso. La verità di cui si tratta qui è quella che sorge sullo sfondo dell'ignoto e dunque l'operazione che la concernerà non risponderà all'ordine dell'organizzazione di un sapere in funzione dell'esercizio del governo; essa investirà piuttosto un rituale di manifestazione della verità che ha bensì un rapporto con l'esercizio del potere, ma assai diverso tanto dalla semplice utilità che dal puro calcolo.
Quella che Foucault addita è dunque una fondamentale coappartenza tra esercizio del potere e manifestazione di verità. Non c'è egemonia senza aleturgia (ossia una manifestazione rituale di verità): laddove c'è del potere e laddove si vuole che ce ne sia, là deve esservi manifestazione di verità. L'ipotesi che guida il corso è dunque quella di indagare i modi e le forme di un governo degli uomini attraverso la verità. Operazione che finirà per implicare anche la sovversione di quel nesso tra sapere e potere che tanta parte aveva avuto nelle ricerche foucaultiane. L'imperativo dell'indagine sembra quello, testualmente, di sbarazzarsi di questa griglia interpretativa. Se i corsi precedenti avevano messo in cantiere la revisione del concetto di potere attraverso quello di governamentalità, prima, e di governo, dopo, si tratta adesso di cimentarsi con uno speculare rimaneggiamento della nozione di sapere nella direzione del problema della verità: non si possono infatti dirigere gli esseri umani e le loro condotte senza compiere delle operazioni nell'ordine del vero, tali da eccedere sempre ciò che è necessario e utile. Foucault sembra insomma operare una correzione rispetto a La volontà di sapere, arrivando a sostenere che, se il potere non si riduce alla sua dimensione biopolitica, è proprio in virtù di questo cerchio aleturgico costantemente tracciato attorno al proprio esercizio.
La peripezia di Edipo
Seguendo questa intuizione - tanto nel corso che nel seminario - Foucault propone una lettura aleturgica di Edipo re. Se ogni tragedia greca è un'aleturgia, allora Edipo re è una sorta di aleturgia di secondo grado: essa allo stesso tempo produce e rappresenta (performa) una veridizione. C'è di più: giusta la riduzione aristotelica degli elementi chiave della tragedia alla peripezia e al riconoscimento, l'Edipo propone un percorso à rebours che va dal riconoscimento (della verità) alla peripezia (il modo in cui la verità si è prodotta). E l'intento foucaultiano è precisamente quello di isolare l'insieme di tecniche e procedure attraverso le quali si produce e si manifesta la verità della tragedia nell'intreccio drammaturgico di verità e veridizioni multiple: il potere - è questa la lezione di Edipo - si esercita attraverso una manifestazione di verità secondo la forma della soggettività, con effetti di salvezza per ciascuno e per tutti.
Proprio il rapporto tra verità e soggettività si guadagna il centro della scena del corso. Se esiste un modo di affrontare filosoficamente la politica che consiste nel domandarsi che cosa sia possibile dire del potere che lo assoggetta una volta che il soggetto si sia volontariamente sottomesso al legame con la verità attraverso un atto di conoscenza; esiste anche la possibilità di domandarsi, muovendo non già dal legame volontario alla verità quanto dalla stessa questione del potere, quale sia il rapporto tra il potere e il soggetto di conoscenza e quali effetti ciò abbia sul legame di verità cui questi si trova involontariamente sottomesso.
Non si tratta di allestire una critica della rappresentazione centrata sui dualismi del vero e del falso, scambiandoli per indicatori della legittimità del potere, ma di cogliere, nel movimento di separazione dal potere, indizi sul rapporto tra soggetto e verità. Non si tratta di un'epochè, ma del tentativo di non considerare nessun potere come dato, evidente o inevitabile, e quindi di non attribuirgli mai nessuna preventiva o intrinseca legittimità. Il rapporto tra soggetto e verità potrà essere indagato mostrando come in ultima istanza le relazioni di potere si reggano sul nulla.
Foucault sta additando nulla di meno che la costitutiva contingenza di ogni rapporto di potere. Si tratta di un'attitudine insieme teorica e pratica che concerne la non accettabilità del potere come principio di intelligibilità del sapere. Foucault decide di chiamarla «anarcheologia»: se nessun concetto è necessario o essenziale, è tuttavia possibile e opportuno analizzare il fragile tessuto storico entro cui esso si situa. Si avrà così una triangolazione che conduce dalla pratica ai suoi effetti sulla struttura dei saperi, fino agli effetti che questi ultimi imprimono sull'esperienza stessa del soggetto.
La tecnologia del potere
Sembrano così - condensati nel bizzarro concetto di anarcheologia - riapparire e chiarirsi tutti gli elementi che compongono il composito quadro del metodo foucaultiano: il rifiuto degli universali, l'antiumanismo metodologico, l'analisi tecnologica dei meccanismi di potere e il continuo spostamento in avanti dei punti di non accettabilità. L'anarcheologia del sapere non è uno studio globale delle relazioni tra potere politico e conoscenza scientifica, ma un'analisi cocciuta dei regimi di verità e delle relazioni che legano la manifestazione di verità e le loro procedure ai soggetti che ne sono gli operatori, i testimoni o gli oggetti. Essa è quindi una storia della molteplicità dei regimi di verità e dei modi specifici in cui si istituisce il legame tra manifestazione e oggetto di verità che ciascuno di essi comporta.
Foucault conduce perciò uno studio - o per lo meno la sua preparazione - di tutti quegli esercizi del potere che obbligano gli individui a farsi protagonisti di procedure aleturgiche. L'indagine si concentra sulla natura del rapporto tra soggetto di potere e soggetto attraverso il quale e per il quale la verità si manifesta. Questa inserzione del soggetto nel vivo dell'aleturgia verrà definito da Foucault - con un prestito dal lessico della penitenza - actus veritatis. L'esercizio del potere come governo degli uomini richiede, quindi, non solo atti di obbedienza, ma anche atti di verità e alla prima dovrà, di conseguenza, sempre accompagnarsi uno speciale modo di manifestare la propria verità di soggetti.
Se l'economia dogmatica è stata una forma eminente di pensare il rapporto tra governo degli uomini e regime di verità, allora il cristianesimo costituirà il quadro di verifica dell'ipotesi. Il regime di verità istituito dal cristianesimo non può infatti ridursi al dogma e alla credenza. Insieme e oltre al contenuto della credenza, esiste un atto di verità e, oltre e insieme alla professione di fede, esiste l'obbligo per gli individui di stabilire con sé stessi un rapporto di verità e insieme di produrre la propria verità con effetti che esorbitano l'ordine della conoscenza.
L'atto di verità come atto di confessione è l'operatore esemplare che permetterà a Foucault di mostrare la tensione e il rapporto tra due regimi di verità interni al cristianesimo. Se la fede è l'adesione a una verità esterna e inattingibile, il cui piano di soggettivazione coincide con l'accettazione di un contenuto, nel caso della confessione la verità è conquistata grazie a uno scandaglio del fondo della propria anima. Foucault si propone quindi un più approfondito attraversamento del cristianesimo, cui - in un progetto che sembra solo parzialmente rispettato dal dettato del corso - cerca di dare corso attraverso lo studio dell'esame di sé, della confessione e della remissione dei peccati.
Tra penitenza e mortificazione
Il rapporto tra soggettività e verità implica un'organizzazione complessa di tecniche differenti utili a legare l'obbligo alla verità con la soggettività: la probatio sui nel battesimo, la pubblicatio sui nella penitenza e l'esplorazione degli arcana coscientiae nell'esame e nella direzione. Si tratta, nei tre casi, sempre di una relazione che associa la mortificazione di sé, il rapporto con un altro e la verità. Questa articolazione definisce i confini di una speciale forma di obbligazione che non avrebbe mai finito di attraversare la storia della soggettività, modellandola e trasformandola fino a oggi. Soggettività e verità non comunicano soltanto nell'accesso del soggetto alla verità, ma anche attraverso la flessione del soggetto sulla sua propria verità, mediata da speciali esercizi capaci di metterla in parola. Non è necessario essere Edipo, sembra sostenere Foucault, per essere obbligati a operare la propria autoaleturgia.
Questa istituzionalizzazione dei rapporti tra soggettività e verità attraverso l'obbligo a dire la verità su se stessi, non si sostiene tuttavia senza l'organizzazione di una forma specifica di potere. Foucault, chiudendo il corso, ritorna sul quadro che - nella stanza di Settimio Severo - rappresentava l'ordine celeste e quindi la verità del mondo, tenendo al contempo nascosta la configurazione astrale che celava il destino di Settimio. Se l'imperatore romano - con il cielo stellato sopra di lui - domandava così il segno e la promessa della perennità del suo potere a una verità del mondo depurata dalla verità su di sé, il cristiano, che non ha la verità del mondo sopra la testa, ma la verità di sé nel fondo del cuore, è perciò obbligato a manifestarla a un altro, secondo i modi e le forme di un'obbedienza che prolunga la sua ombra sulla nostra stessa contemporaneità.
Quella «politica di noi stessi» su cui Foucault avrebbe cominciato a lavorare negli stessi anni, immaginando pratiche di soggettivazione all'altezza delle tecniche di assoggettamento che le fronteggiano, domanda di incominciare a disobbedire. In primo luogo a noi stessi.