Pier Aldo Rovatti
La sfida dei migranti
"Il Piccolo" 18 ottobre 2013
Leggo che negli ultimi dieci anni, hanno lasciato la vita nel “cimitero mediterraneo” quasi 7000 persone. Le chiamo “persone” anche se tutti sappiamo che si tratta di “non persone”, prive di ogni diritto, senza data di nascita, anche senza nome. Disperati che arrivano dall’Africa, ammassati dentro fatiscenti barconi. Cercano di arrivare e continueranno a farlo. Molti annegano come topi, e i pescatori siciliani scrutano con terrore le loro reti in cui non è detto che ci siano solo pesci. Immigrati clandestini che scappano da situazioni impossibili e che giunti alla meta, quando ce la fanno, disidratati, stravolti da un viaggio infernale, uomini, donne anche incinta, bambini, possono essere subito incriminati, ma a loro poco importa: sono ancora vivi. Dei trafficanti e degli scafisti, autentici delinquenti che profittano della disperazione, si parla poco.
Ciascuno di questi nuovi “dannati della terra” ha naturalmente una storia personale – altro che “non persone”: una identità precisa. Ciascuno ha portato con sé foto, piccoli oggetti, segnali dei propri affetti: a volte galleggiano nelle acque dove loro sono deceduti, spesso imbottigliati nel fondo di un barcone rovesciato. Ciascuno ha pagato agli innominabili trafficanti e scafisti assai più dell’equivalente di un biglietto di aereo, ma nessuno di questi miserevoli migranti verrà mai accolto su un normale volo.
Le politiche dell’immigrazione! Al di là dell’orrore e della vergogna, che cosa si può fare? In fretta, però, perché, se l’ultima tragedia è di ieri, domani ci sarà puntualmente la prossima. Ma queste “politiche” che adesso tutti invochiamo ad alta voce, sono abbastanza complicate: c’è il nodo dell’Europa, ci sono gli Stati nazionali con i loro dispositivi. Non basta cancellare un provvedimento iniquo rivolto a criminalizzare gli immigrati, anche se è sacrosanto farlo. Occorre organizzare in concreto i modi della “protezione” e dell’“asilo”, istituire fondi ingenti, abbattere ipocrisie, prevedere in solido le opportunità di impiego in un quadro non solo nazionale. Se poi, a questa macchina già di per sé complessa, aggiungiamo una volontà politica alquanto debole, per usare un eufemismo, ci rendiamo conto di quanto siano difficili soluzioni immediate.
E inoltre: abbiamo sul tavolo le cifre di un evento epocale previsto e temuto (molti, all’alba del nuovo secolo, avevano valutato che sarebbe stata la questione fondamentale e decisiva del prossimo futuro), ma cosa ne sappiamo davvero? Si è davvero diffusa una cultura dell’ospitalità e della migrazione? C’è da dubitarne perché spesso ci accontentiamo solo delle statistiche e gli stessi migranti restano perlopiù semplici numeri, quantità da spostare prive di esistenza storica, identificazioni senza spessore. Se non cresce una vera cultura della migrazione, l’umanitarismo servirà solo a scaricare le coscienze.
Ospitalità e asilo restano parole vuote se ci limitiamo a un atteggiamento difensivo, a una pàtina superficiale di buona volontà. Esse sono, invece, parole pesanti. Non si lasciano addomesticare neppure sul piano del diritto. Ogni Stato, e l’Italia ne sa qualcosa, si arrabatta a costruire dighe e contenimenti. Le leggi, pur le migliori (e noi di certo non le abbiamo), non riescono a contenere mai quell’enormità incondizionata che ha il nome di ospitalità.
Dobbiamo saperlo, prestando anche orecchio a quegli strani avvertimenti che la filosofia, da Kant in poi, ci ripete. E cioè che l’ospitalità non è mai una concessione bensì uno stile radicale di vita, una cultura che dovrebbe spalancare le nostre case, o almeno renderle meno chiuse. Ospiti del nostro ospite? Sembra un’affermazione assurda, eppure proprio questa dovrebbe essere la vera ospitalità, che non si può dividere in pezzi, che è sempre tutta intera. Se la spezzettiamo diventa falsa, non merita più questo nome.
Altro è dire, come diciamo di solito: non si può pensare e agire diversamente. Tutt’altra cosa è sapere che le nostre pratiche sono sempre condizionate e imperfette e fare di questo un problema di civiltà e di rinnovamento sociale, una spinta ad andare avanti piuttosto che il freno di un approdo.
Il fenomeno dei migranti, che adesso rode le nostre coscienze, non è solo un terremoto sociale ed economico da fronteggiare con buone politiche (fin qui latitanti), è anche, e necessariamente, l’esigenza di trasformare la nostra asfittica idea di civiltà. Questa è la grande sfida che ci lanciano i migranti. Perderla è molto facile. Ma dobbiamo pur sapere che, se la perdiamo, o se neppure vogliamo vederla, le conseguenze potrebbero essere devastanti per tutti.
“Non persone”? Come se sapessimo bene di cosa è fatta una persona, ovvero ciò che ciascuno di noi si vanta di essere. I migranti, con la loro drammatica presenza, possono scombinare proprio questa nostra compiaciuta sicurezza.
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