sabato 4 febbraio 2012

La Biopolitica di Agamben nello specchio francescano di Andrea Cavalletti (Alias, Il Manifesto, 11 Dicembre 2011 )

                                                  Andrea Buttner: The Poverty of Riches, 2011
La Biopolitica di Agamben nello specchio francescano. 
di Andrea Cavalletti  (Alias, Il Manifesto Domenica 11 Dicembre 2011 )


Qualcosa di inaudito, una nuova relazione tra norma e vita, una nuova “religio”: l’assoluto filosofico della regola francescana è al centro di “Altissima povertà”, il recente saggio di Giorgio Agamben edito da Neri Pozza

“La vita monastica trasforma tutto, azione, pensiero, volontà, amore in una suite liturgica”. Così scriveva nel suo diario Jean Fallot, in visita ad Assisi la domenica di Pasqua del 1953. E aggiungeva: “San Francesco ha avuto la passione della povertà. Nella forza di questo sentimento vi era quasi la radice di un’altra religione. Cristo era carità prima di essere povertà. San Francesco era povertà... si ritrova in Francesco, nella sua povertà, la ricerca e la buona novella di un’identità. Ciò che è identico all’uomo,la sua povertà. Tutto il resto gli giunge dal mondo. E’ dunque nella povertà, che ci rende conformi al nostro vero destino temporale, che compiamo il nostro destino religioso: nato povero, vivente povero, salvato perché povero. Nella povertà di Francesco vi è di più che un metodo di imitazione del Cristo, o di vita devota o monacale, vi è un vero principio di identità: a cosa l’uomo è identico? In che cosa consiste la sua immutabile realtà? Di qui il rifiuto dei vestiti, che non è soltanto simbolico.”

Torna alla mente questa pagina, leggendo l’ultimo, importante libro di Giorgio Agamben, Altissima povertà Regole monastiche e forme di vita. Homo sacer IV,1 (Neri Pozza). Che cos’è il francescanesimo? La trasformazione di tutto e prima di tutto del paradigma dell’azione umana, che dal piano della prassi “si sposta a quello della forma di vita e del vivere”, facendosi cioé - “attraverso la grandiosa articolazione dell’anno liturgico” - sequela inseparabile dall’esistenza dei soggetti. Meglio: il francescanesimo, molto di più che un metodo di imitazione del Messia, è “qualcosa di inaudito e di nuovo”, una nuova religio ossia - secondo il significato che Agamben restituisce a questa parola - una nuova relazione tra norma e vita. E la povertà di Francesco è “identificazione di un piano di consistenza” (Fallot parlava di identità col “testo empirico” dell’uomo), ossia di un dominio “impensato e forse ancora oggi impensabile, che i sintagmi di vita vel regula, regula et vitae, forma vivendi, forma vitae cercano faticosamente di nominare.”

E’ proprio alla definizione di questa “forma-di-vita” che mira in fondo l’intera officina agambeniana, sin dalle pagine finali di Homo Sacer I (1995). Già quel volume aveva mostrato come il diritto, e in ragione della sua origine propriamente biopolitica, distingua continuamente zoé e bìos isolando, nell’uomo, una “nuda vita” sacrificabile. E aveva indicato il compito di una ricerca che esponesse le modalità e verificasse i limiti di questa separazione. Dopo gli studi sullo stato di eccezione, dopo L’aperto (2002) e la definizione della “macchina antropologica”, il grande lavoro del 2006 Il Regno e la Gloria, aveva posto in luce il paradigma teologico della biopolitica, declinato nelle forme dell’economia e del governo, proponendo un’uscita nell’idea di vita inoperosa o di habitus della potenza (l’acquiescentia in se ipso di Spinoza). 


Altissima povertà segue e sviluppa questa teoria. E riprende, nei capolavori della Scolastica e nelle definizioni minuziose degli horologia monastici, una suggestione del grande romanista Yan Thomas, secondo cui la fioritura di regulae a partire dal V secolo resta irriducibile alla tradizione del diritto romano così come alla sua glossa cristiana. Con una prima mossa straniante, secondo la quale ogni fenomeno si rende intelligibile nella sua parodia (così la regola monastica nella Thélème di Gargantua e nelle 120 giornate di Sodoma), Agamben svolge e radicalizza questa intuizione. E addentrandosi poi nella tradizione cenobitica vera e propria dimostra come qui sia in questione qualcosa che eccede costitutivamente tanto l’osservanza o l’ingiunzione del precetto quanto la natura della norma canonica. Raggiungendo un tenore ultra-legale la regola si situa anzi in una zona di indistinzione con la vita, mentre questa non sarà la materia in cui si imprime il progetto normativo, ma una forma in se stessa.

Due, si può dire, sono i documenti esemplari. Uno viene dal più antico commentario alla regola dei frati minori, l’Expositio dei quattro maestri. Si tratta di una massima sullo stato di necessità: se in condizioni eccezionali i frati possono essere dispensati dalla regola (camminare a piedi nudi), tuttavia non portare scarpe - si precisa - non è la loro regola, ma la forma di vita.  Si affaccia così la figura di un vero stato di eccezione, che non fonda il diritto, come nello schema schmittiano, ma affranca dal dirittto stesso. Il secondo documento è quel passo in cui la Regola del maestro prescrive la sua stessa lettura. Leggendo la regola, il monaco così la “esegue ipso facto”; in questo momento enunciazione ed esecuzione coincidono, e la vita di chi legge non è altro che regola mentre la regola è unicamente il suo uso. Vivere nell’uso, e sciogliere l’uso dal diritto, ossia dall’appropriazione, è stato il grande tentativo e l’insegnamento più attuale del francescanesimo. 


E tuttavia, se la dottrina dell’usus facti svelava la vera natura della proprietà, quale mitico intreccio di psicologia (intenzione di possedere) e rivendicazione procedurale, d’altra parte gli eredi di Francesco non riuscivano a definire la forma di vita se non in termini negativi, in opposizione e in costante riferimento al diritto. Di qui la loro sconfitta storica, sotto l’attacco intenso dei giuristi curiali, di qui l’affermazione del progetto rivale, quello ecclesiastico che separa la liturgia dalla vita. Ma l’altissima povertà resta viva per Agamben nella visione anti-dottrinaria ed escatologica di Olivi, si congiunge col “piuttosto fa uso” della Lettera ai Corinzi, con la forma messianica e impersonale degli “usanti il mondo come non abusanti”. 

Benjamin definiva le sue Tesi sul concetto di storia come una “regola” monastica, la cui meditazione doveva liberare dagli errori della socialdemocrazia del suo tempo. Si dia una lettura performativa anche di questo libro, un uso che ci liberi dalle riserve del diritto, e così da ogni governo, con le sue tristi liturgie operative. 


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