- Sul micro-fascismo
Obsolete Capitalism Partiamo dall’analisi di Wu Ming, esposta nel breve saggio per la London Review of Books intitolato “Yet another right-wing cult coming from Italy”, che legge il M5S e il fenomeno Grillo come un nuovo movimento autoritario di destra. Come è possibile che il desiderio di cambiamento di buona parte del corpo elettorale sia stato vanificato e le masse abbiano di nuovo anelato - ancora una volta - la propria repressione ? Siamo fermi nuovamente all’affermazione di WilhelmReich: sì, le masse hanno desiderato, in un determinato momento storico, il fascismo. Le masse non sono state ingannate, hanno capito molto bene il pericolo autoritario, ma l’hanno votato lo stesso. E il pensiero doppiamente preoccupante è il seguente: i due movimenti populisti autoritari, M5S e PdL, sommati insieme hanno più del 50% dell’elettorato italiano. Le tossine dell’autoritarismo e del micro-fascismo perché e quanto sono presenti nella società italiana contemporanea ?
Lapo Berti: Democrazia vuota
Da lungo tempo abbiamo smesso di vivere in regimi politici che possano definirsi autenticamente democratici in base alle modalità con cui i cittadini sono posti in grado di eleggere i loro rappresentanti e controllarne l'operato. Questo significa che ai cittadini è ormai, di fatto, negata la possibilità di essere protagonisti dei processi attraverso cui si prendono le decisioni rilevanti per la collettività. In taluni casi estremi, come quello italiano, ai cittadini è sottratto anche il potere formale di scegliere i propri rappresentanti, che dovrebbe essere il tratto distintivo della democrazia rappresentativa ovvero un valore politico inalienabile. Nella maggior parte dei casi, invece, tale potere è formalmente rispettato, ma il potere effettivo è stabilmente trasferito in altre mani e ai cittadini rimane aperta esclusivamente la possibilità di partecipare a quella messa in scena dell'immaginario democratico che sono le elezioni politiche, in cui, di fatto, si celebra il contrario di quello che comunemente si ritiene, ovvero la rinuncia, per un periodo di almeno cinque anni, a esercitare qualsiasi forma di controllo sugli obiettivi perseguiti dagli eletti e sui modi di realizzarli. Probabilmente, nessun regime democratico è stato mai effettivo, realizzando un efficace "potere del popolo", se non in fasi eccezionali e allo stato nascente. Si può tuttavia affermare che, in certi periodi, che variano da paese a paese, la delega agli eletti è stata esercitata con modalità che rappresentavano un compromesso accettabile rispetto a un effettivo esercizio del potere popolare che fosse in grado di determinare con sufficiente precisione gli obiettivi dell'azione pubblica e l'esercizio del potere di governo. Non è più così in nessuno dei paesi che si definiscono democratici.
Il ritorno delle élite
Ormai da lungo tempo, non solo in Italia, il potere di governo è stato stabilmente requisito da gruppi elitari che derivano la loro forza dal possesso di un potere dominante in ambito economico, politico e sociale. Tali gruppi, generalmente interconnessi e caratterizzati da una considerevole scambiabilità delle posizioni che contribuisce alla loro stabilità nel tempo, formano un'oligarchia che ha nella finanza il proprio strumento fondamentale nonché il proprio legame fondante.
Per capire fino in fondo la portata di questo processo, è necessario rendersi conto che la globalizzazione non è il risultato spontaneo della dinamica dei mercati, come spesso si sostiene, ma è l'approdo consapevolmente perseguito dalle élite economiche mondiali per sottrarsi alle possibili interferenze della politica, ai vincoli e ai limiti posti dalle giurisdizioni nazionali, in cui si esprime il vecchio e obsoleto potere degli stati. La globalizzazione è, prima di tutto, la creazione di uno spazio esente dalla politica e dal diritto, in cui l'oligarchia finanziaria può liberamente dispiegare i suoi disegni di ricchezza e di potere. La globalizzazione è il risultato estremo di una guerra che si è combattuta lungo tutto il novecento tra chi voleva costruire un controllo della politica, in nome e per conto della collettività, sul mondo dell'economia e della finanza e le élite economiche che perseguivano con energia e pervicacia il ritorno al mondo pre-crisi del laissez-faire. La cesura era stata rappresentata dal New Deal rooseveltiano e dal trentennio del compromesso socialdemocratico, seguito alla seconda guerra mondiale e ispirato alla dottrina keynesiana. Il tentativo era quello di rendere possibile la convivenza fra democrazia e capitalismo, facendo dello stato il regolatore di ultima istanza dei conflitti sociali attraverso lo strumento del welfare pubblico. Fin dall'inizio, questa svolta, imposta dal trauma della Grande crisi, era stata percepita, almeno da una parte delle élite capitalistiche mondiali, come una deriva pericolosa, in grado di mettere a repentaglio la sopravvivenza del sistema capitalistico. E fin da subito erano stati posti in essere progetti di revanche, concretizzatisi con il trentennio neo-liberale e culminati nel grandioso progetto della globalizzazione.
Questo è il risultato, oggi confermatosi a livello globale con la formazione di un'oligarchia globale occulta, di un lungo processo che ha visto la formazione e l'affermazione del potere delle élite in tutti gli ambiti della vita sociale. Questo processo, di cui non mancano i segni lungo tutto il periodo che ha visto diffondersi la democrazia in tutto il mondo, ha avuto inizio in concomitanza con la prima grande ondata di democratizzazione che si è avuta come reazione alla crisi del '29, nella misura in cui questa fu percepita come la chiara manifestazione dei limiti intrinseci al capitalismo del laissez-faire. Dal momento in cui fu chiaro che i vertici del capitalismo mondiale, a partire da quelli americani, erano sotto attacco, hanno preso forma iniziative volte a realizzare una linea di resistenza contro le "eccessive" pretese della democrazia ovvero contro il progetto di porre sotto controllo l'iniziativa capitalistica, soprattutto quella incarnata nelle grandi organizzazioni del capitalismo industriale e, soprattutto, finanziario.
In tutto l'occidente i partiti politici sono stati risucchiati dal processo di penetrazione sociale delle élite e si sono trasformati in gangli del potere elitario, trasformandosi essi stessi in potenti élite, depositarie del potere conferito, nelle democrazie rappresentative, dal voto dei cittadini, e abilitate a esercitare il potere di governo per conto e nell'interesse delle élite capitalistiche in cambio di una partecipazione al potere economico e al godimento della ricchezza che esso maneggia.
La degenerazione dei sistemi democratici è stata prodotta e sospinta dall'assoggettamento dei gruppi dirigenti dei partiti alle strategie delle élite economiche. I partiti, anche quelli popolari, di massa, si sono rivelati permeabili, attraverso i loro gruppi dirigenti, al potere economico e finanziario. La corruzione si è installata stabilmente nel panorama politico, quale strumento di perversione dei meccanismi democratici in favore degli interessi delle élite dominanti.
La risposta dei cittadini ha assunto varie forme. La principale è stata quella di un allontanamento dal voto, sempre più percepito come un atto inutile se non addirittura ridicolo di fronte all'impermeabilità di un mondo politico divenuto del tutto autoreferenziale. Si tende, generalmente, a considerare lo sciopero del voto come un allontanamento dalla politica. Non è detto. Può essere anche il prodotto di una consapevolezza politica superiore alla media che più rapidamente e più nettamente sfocia nello scetticismo. Per il funzionamento della democrazia il risultato non cambia. Quando si comincia a votare con i piedi, perché non c'è più la speranza di far udire la propria voce, vuol dire che qualcosa si è irrimediabilmente rotto nel meccanismo della rappresentanza. E quando, com'è nel caso delle ultime elezioni italiane, l'astensione sfiora la metà degli aventi diritto vuol dire che la rottura è grave e che è assai improbabile che sia reversibile nel breve periodo.
La seconda reazione è ancora più insidiosa, perché tende a trasformare e addirittura a snaturare l'intero ethos democratico. È la risposta populista, che assume sempre connotati conservatori e antidemocratici, se non reazionari, anche quando le sue radici si allungano nel terreno della sinistra. Il populismo diventa una prospettiva praticabile quando si crea un vuoto incolmabile nella relazione fra le aspettative, i bisogni, dei cittadini e la vita politica che trova espressione nell'astensione dal voto, nella rinuncia a partecipare a quello che viene ormai percepito come un rituale vuoto: la delega ai rappresentanti del popolo. Il populismo si fa strada allorché i cittadini perdono la speranza di poter essere protagonisti della vita democratica e si rifugiano nella ricerca di un surrogato che rappresenti le loro aspirazioni e che generalmente assume le sembianze di una figura salvifica,di un personaggio che s'impone per le sue capacità di comunicazione, esaltate o addirittura costruite dai mass media.
In Italia abbiamo oggi due populismi, molto diversi in superficie, ma sostanzialmente omogenei dal punto di vista delle pulsioni che li alimentano e delle conseguenze sociali e politiche che provocano. Sono entrambi figli della crisi della politica novecentesca, fondata sulla capacità dei grandi partiti di massa di rispecchiare e rappresentare la composizione sociale generata dal fordismo. I partiti tradizionali si sono trasformati in senso oligarchico, sono diventati autoreferenziali, rivolti alla riproduzione di una classe dirigente inamovibile. Quel più conta, gli interessi dei diversi gruppi sociali sono passati in secondo piano, sostituiti da una fitta rete di rapporti clientelari. È venuta meno, in larghi strati della popolazione, la fiducia che dai partiti possa venire la soluzione dei problemi sociali. I riti della politica politicante sono divenuti per i più un gioco astruso. Si è andati alla ricerca di scorciatoie, di soluzioni dirette e semplificate. Era pronto il terreno per l'avvento dei taumaturghi, con la finzione di un rapporto diretto con il popolo e con la disponibilità a farsi dettare l'agenda da quello che si muove nella sua pancia, attraverso il gioco dei sondaggi o l'illusione della democrazia via web. Sotto questo profilo, Grillo e Berlusconi sono identici. Paradossalmente, ambedue, con il trucco più antico del mondo, hanno intercettato, in mezzo a paure e rabbie primordiali, una volontà effettiva di cambiamento, di modernizzazione del paese, ma l'hanno piegata a fini di affermazione personale. Di impulsi originariamente animati da uno spirito riformatore hanno fatto gli strumenti di un'operazione di conservazione, intrappolandoli nel recinto dei populismi e nell'attesa messianica dell'uomo solo che salva e risolve.
Una qualche spinta verso esiti populistici è probabilmente insita nel tipo di società che sono state forgiate dai processi di globalizzazione. Il disagio che afferra milioni di persone nel momento in cui percepiscono che la loro vita non dipende più soltanto da relazioni tutto sommato di vicinato, ma da quello che fanno e decidono milioni di sconosciuti sparsi nei luoghi più diversi e lontani del pianeta, l'angoscia che ne deriva rispetto a un destino di cui non ci sente più padroni perché sono venuti meno gli strumenti con i quali pensavamo/ci illudevamo di controllarlo e che appare minacciato da forze esterne e oscure, la sensazione d'impotenza che si prova di fronte a un mondo fattosi troppo complesso: tutte queste pulsioni confluiscono in una generalizzata quanto irriflessa richiesta di semplificazione. E qui, di nuovo, ricompare il populismo, con la sua offerta di allettanti scorciatoie, con l'illusione di poter delegare a qualcuno la soluzione di tutti i problemi in cambio di un'adesione viscerale, fideistica, che fa a meno del ragionamento politico e dell'impegno consapevole degli individui. In questo senso, i populismi sono sempre di destra, antidemocratici. (...)
Lapo Berti, italiano, economista, è stato dal marzo 1993 al luglio 2010 dirigente presso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. È stato docente di Politica economica e finanziaria. Si è occupato di problemi di teoria monetaria e di storia del pensiero economico nonché di politica economica. È autore di L’Antieuropa delle monete (con A. Fumagalli, Il Manifesto 1993) e di Saldi di fine secolo. Le privatizzazioni in Italia (Ediesse, 1998). Più di recente ha pubblicato Il mercato oltre le ideologie (Università Bocconi Editore, 2006), Le stagioni dell'antitrust (con Andrea Pezzoli,Università Bocconi Editore 2010) e Trattatello sulla felicità (LUISS University Press, 2013). Giovanissimo, ha iniziato a collaborare (1964-1966) con il gruppo della rivista della sinistra operaista "Classe Operaia" di cui Mario Tronti fu tra i fondatori (con Massimo Cacciari e Alberto Asor Rosa) e negli anni Settanta è stato redattore di alcuni progetti editoriali militanti tra i quali la rivistaPrimo Maggio. Presidente dell'associazione ACQ/Lab21 scrive regolarmente sul sito di www.lib21.org
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