Un’esperienza marxista di Foucault
di Antonio Negri
@ Euronomade, 30 dicembre 2014
Relazione al Colloque Marx-Foucault, Nanterre, 18-19 dicembre 2014
1. La domanda che mi porrò oggi è semplice: come ho tentato di leggere, come mi è sembrato possibile farlo, nel mio lavoro, Marx con e dopo Foucault? Vorrei analizzare rapidamente questa esperienza. Si è trattato di fissare degli assi di lettura marxiana che si organizzassero attorno ad un dispositivo di soggettivazione, ricalcato su Foucault e del quale io cercherò di mostrare la possibilità d’essere applicato alla nostra attualità: esso impone un’ontologia adeguata. Se, inversamente, leggere Marx significa nutrire una volontà radicale di trasformazione dell’essere storico, la soggettivazione foucaltiana mi sembra debba essere confrontata a tale determinazione.
1. La domanda che mi porrò oggi è semplice: come ho tentato di leggere, come mi è sembrato possibile farlo, nel mio lavoro, Marx con e dopo Foucault? Vorrei analizzare rapidamente questa esperienza. Si è trattato di fissare degli assi di lettura marxiana che si organizzassero attorno ad un dispositivo di soggettivazione, ricalcato su Foucault e del quale io cercherò di mostrare la possibilità d’essere applicato alla nostra attualità: esso impone un’ontologia adeguata. Se, inversamente, leggere Marx significa nutrire una volontà radicale di trasformazione dell’essere storico, la soggettivazione foucaltiana mi sembra debba essere confrontata a tale determinazione.
A) Sembra a me oggi, che sulla base delle intuizioni e delle conclusioni foucaultiane, il tono e lo stile fortemente storicizzati della critica marxiana dell’economia politica vadano articolati in maniera netta ad un approccio materialista. Ed allora, evidentemente, non si tratta solo di leggere insieme i testi storici di Marx e gli altri suoi lavori (in particolare quelli di critica dell’economia politica) ma di approfondire e di sviluppare genealogicamente l’analisi dei concetti – aprendoli al presente.
L’approccio foucaltiano ci ha quindi permesso non solo di cogliere ma di insistere sulla soggettivazione della lotta di classe come agente del processo storico. L’analisi di tale soggettivazione andrà naturalmente sempre rinnovata e confrontata alle determinazioni trasformative che i concetti subiscono nel processo storico. Tutto ciò, nell’ambito della sollecitazione foucaultiana – fuori da ogni dialettica e teleologia – ad assumere la soggettivazione storica come dispositivo non causale né creativo, tuttavia determinante. Alla maniera di Machiavelli: un materialismo storico per noi.
Due esempi fra i molti possibili.
- Quando Marx definisce, ne Il Capitale, il passaggio dall’estrazione del plus-valore assoluto a quella del plus-valore relativo, correlando questo passaggio alle lotte operaie per la riduzione della giornata lavorativa – qui la dimensione storica della lotta, la specifica soggettivazione di classe diviene essenziale, nell’evento, per definire la trasformazione ontologica della struttura di valorizzazione capitalistica. Nonché la trasformazione del rapporto fra composizione tecnica e politica – intendiamo l’innovazione – della soggettività operaia. Insomma la lotta rende possibile l’evento e la trasformazione ontologica stessa.
- Quando Marx passa dall’analisi della “sussunzione formale” a quella della “sussunzione reale” del lavoro sotto il capitale – si tratta innanzitutto di un’ipotesi sullo sviluppo storico del modo di produzione capitalistico. Ora, Marx trae dalla descrizione di questo passaggio (che investe il processo del plus-valore e la sua trasformazione in profitto) varie possibili figure dell’estrazione del plus-valore. Su questa base, storicamente fondata, introduce l’analisi di un continuo configurarsi delle categorie dello sfruttamento in diverse epoche dello sviluppo capitalistico.
In questo quadro, ad esempio, può essere sottoposta a critica lo stesso concetto di classe operaia, che si trasforma e si consolida in figure diverse nel passaggio dalla “manifattura” alla “grande industria” – ed ora dal capitalismo industriale nella sua figura fordista – più o meno socializzata – al capitalismo finanziario. Il concetto di “moltitudine” può qui risultare adeguato a descrivere le attuali determinazioni del “lavoro vivo” in senso “cognitivo”, singolare, plurale e cooperativo. Quindi non a eliminare il concetto di classe operaia ma a ridefinirlo.
B) In una prospettiva teorica di salda origine foucaultiana, si può allora assumere il concetto marxiano di capitale (soprattutto quando lo si consideri nel suo sviluppo storico, dalla “manifattura” alla “grande industria”, dalla figura del “capitale sociale” a quella del “capitale finanziario”) in stretta connessione con il concetto di potere nella definizione foucaultiana – e cioè come prodotto di un rapporto di forza, come azione sull’azione di un altro, come effetto di “lotta di classe” con incidenza ontologica.
Sono le caratteristiche nuove della soggettivazione proletaria – resistente e/o attiva come forza produttiva (singolarizzata e cognitiva) – che permettono di ricollocare la lotta di classe al centro dello sviluppo capitalistico, come suo motore. Anche della sua eventuale crisi finale. E smettiamola ogni volta che qualcuno parla di eventuale fine del capitalismo di accusarlo di teleologia storicista … Sono al contrario queste analogie che ci permettono di rilanciare il significato della “lotta di classe” come Begriff des Politischen.
C) In questo contesto si può anche avanzare – ed è il terzo punto che vorrei considerare – nell’analisi della trasformazione della “composizione tecnica” della forza-lavoro, insistendo sul rapporto che la soggettivazione antagonista oppone al comando capitalista. In una prospettiva foucaultiana, di analisi delle “tecnologie di sé”, può essere infatti approfondita l’efficacia del lavoro-vivo quand’esso si appropria di quote di “capitale fisso”. Ciò significa che la forza-lavoro non solo subisce l’assoggettamento del modo di produzione capitalistico ma che, soggettivandosi al livello di capitale cognitivo, reagisce costituendo nuove figure di lavoro-vivo. Esse si appropriano di frazioni di capitale fisso e così sviluppano una superiore produttività.
Attorno a questo tema è oggi possibile cogliere la caratteristica “eccedenza” del lavoro-vivo cognitivo e di approfondire l’analisi della sua produttività biopolitica. Quella figura di capitale e quella figura di potere che sono sempre interattive nel rapporto di forza che le costituisce, sono anche interattive nel rapporto che presiede ai processi di soggettivazione. Dobbiamo forse qui riprendere l’esperienza Simondon, non semplicemente utilizzandola e sviluppandola in termini di inter-soggettività e trans-individualizzazione ma in termini (guattariani e deleuziani) di trasformazione macchinica delle corporeità e della soggettività.
Se in Deleuze talora manca – pur in questa prospettiva macchinica – l’elemento antagonista della soggettivazione, quest’ultimo può ben essere recuperato se si insistite sulle intuizioni di Foucault. Come c’è lotta di classe che attraversa la composizione organica di capitale, così c’è – e dovrà sempre più essere assunto in maniera centrale – un elemento macchinico – mosso dalla lotta di classe – che appartiene alla composizione tecnica della forza-lavoro antagonista. Dopo Foucault questo sviluppo del discorso marxiano diviene possibile.
Nel rapporto di classe (studiato dopo Foucault), la dimensione ontologica non è uno sfondo ma una macchina produttiva. L’operare comune, l’egemonia produttiva del comune derivano non solo dalla trasformazione del lavoro in macchina cognitiva ma soprattutto dalla trasformazione antropologica che gli sottostà, dalle condotte da cui è nutrita, dalla nuova potenza tecnologica. Se affondano nell’antichità classica, le foucaultiane tecnologie di sé esondano in una nuova antropologia che non ha nessuna caratteristica naturalistica, identitaria – che tuttavia configura l’uomo dopo la “morte dell’uomo”.
L’opera foucaultiana era cominciata dall’analisi dell’“accumulazione degli uomini” che andava assieme all’accumulazione originaria di capitale – ora si tratta di approfondire, con la composizione tecnica del lavoro, la trasformazione dei corpi produttivi, dei modi di vita. Affermando definitivamente che i “modi di vita” divengono “mezzi di produzione”.
D) Infine, quarto punto, e lo dico in maniera del tutto schematica, quando si assuma il rapporto Marx-Foucault a partire dalla teoria foucaultiana della soggettivazione, il comunismo non potrà che essere considerato come il processo che compone la produzione del comune e la soggettivazione democratica, vale a dire la singolarizzazione della moltitudine. È qui che l’ontologia produttiva ritrova il concetto di comune.
2. Ora, avendo già detto in che maniera Foucault mi sia stato utile per leggere Marx, vorrei tuttavia tornare indietro e riprendere l’analisi da un punto di vista meno soggettivo per dare delle basi più chiare a quel tipo di lettura che è stato il mio. Percorrendo il secolo che divide Marx da Foucault e analizzando la diversità delle forme di sfruttamento, di lotte e di modi di vita, fissiamo innanzitutto alcuni punti che fanno la differenza. Si tratta di differenze probabilmente grossolane, senza dubbio limitate, che si collocano tuttavia al centro del lessico politico di entrambi gli autori e che danno la misura di una notevole distanza.
Vedremo più avanti se e come queste importanti differenze possano essere ricollocate dentro una comune prospettiva. Tale è evidentemente la mia ipotesi. Ma per il momento soffermiamoci su queste differenza.
Prima differenza. In Marx, l’unità del comando si mantiene nella figura del potere sovrano. Il governo è unificato nella volontà del capitale. In Foucault, l’unità del potere è invece sciolta e nella “governamentalità” si articolano in forma plurale produzioni di potere diverse e diffuse.
Seconda differenza. In Marx, nel capitale si riassume il dominio, le dinamiche storiche dello sviluppo sociale si susseguono sul ritmo delle differenti “sussunzioni”, in una univoca prospettiva di “capitalizzazione” – quando non si voglia dire di “statalizzazione – del sociale. In Foucault, il biopotere si decentra, la sua diffusione avviene per germinazioni diverse, le articolazioni del potere si singolarizzano. Siamo a fronte di una “socializzazione del politico”.
Terza differenza. In Marx, il comunismo si organizza attraverso la dittatura del proletariato, che sola può costruire la transizione dalla società capitalista ad una società senza classi. In Foucault, il regime politico della liberazione si organizza nella soggettivazione, si singolarizza come libertà, pone nella produzione in maniera illimitata la costruzione di felicità comune. Possono essere corrette o riavvicinate queste indubbie differenze? Le divisioni concettuali che, pur sulla base di una medesima linea ontologica, son date possono esser tolte? Possono, probabilmente, esser rese meno importati di quanto sembrino.
Per esempio, alla prima differenza – la concezione organica dello Stato e del comando in Marx è fortemente attenuata, sul livello politico, dall’analisi storica dei comportamenti delle classi sociali, dal dispositivo interpretativo della “guerra di classe” e dei suoi effetti transitori e multipli; e poi dalle ipotesi (e dalle critiche) “comunarde” sviluppate nei suoi diversi scritti storici.
È comunque soprattutto sul terreno della critica dell’economia politica che quella concezione è profondamente modificata quando dall’analisi dei processi produttivi e riproduttivi – in figure fortemente centralizzate e astratte – Marx passa all’analisi della circolazione sociale delle merci, riconducendo i processi produttivi ai processi di formazione del valore; poi ri-scendendo verso l’analisi del salario e di conseguenza alla descrizione delle classi sociali e dei modi di vita. Il moltiplicarsi e il diffondersi dei meccanismi di potere disegnano allora larghi spazi – quando la società diventa fabbrica, i processi di potere si moltiplicano, divengono differenti, e su queste differenze si mettono letteralmente in pulsazione.
Alla seconda differenza: a fronte della “capitalizzazione” ovvero della “statalizzazione della società” (che si presenta in maniera estremamente violenta nell’“accumulazione originaria”) si dà anche in Marx una certa “governamentalizzazione” o “socializzazione dello Stato” che appare nel processo di trasformazione del modo di produrre capitalistico, dalla “sussunzione formale” alla “sussunzione reale”. Roberto Nigro ha soprattutto insistito su queste analogie della sussunzione fra Marx e Foucault; mentre Macherey ha cercato di cogliere, attraverso l’analisi di queste trasformazioni della società, quella mutazione del “soggetto prodotto” in “soggetto produttivo” che sta per Foucault al centro del problema della soggettivazione.
Alla terza differenza – quanto al comunismo marxiano, alla dittatura del proletariato e, di contro, al suo rovesciamento ontologico nella teoria della soggettivazione foucaultiana – si può forse qui stabilire una qualche simiglianza, avendo presenti le pagine sul comunismo, il General Intellect e l’“individuo sociale” nei Grundrisse. Questa simiglianza diventerà evidente nelle Lezioni foucaultiane a partire dal ’78, e probabilmente risulta il frutto di discussioni avvenute con amici, colleghi e collaboratori nei circoli foucaltiani dell’epoca e comunque nella registrazione di una storiografia di matrice marxista – penso in particolare al lavoro di E. P. Thompson.
Per concludere su questo punto, se queste somiglianze avvicinano i due autori attorno ad alcune tematiche centrali nel moderno (Stato, società e soggetto), ci permettono tuttavia solo di collocarli all’interno della dissolvenza del moderno, non dello sviluppo di una nuova ontologia. Va notato tuttavia che sottolineando queste differenze (e somiglianze) fra Marx e Foucault, ci siamo riferiti a Foucault in quella fase del suo lavoro che arriva al tornante biopolitico dei corsi del 1977-78 e ’78-’79. Le analogie qui determinate restano confuse. I concetti sono trattati in maniera ambigua. Basti pensare che, per Marx, nel primo e nel secondo esempio, ogni accentuazione discorsiva non è data in termini di singolarizzazione ma piuttosto di estrema “astrazione”. L’opposto vale per Foucault.
3. Credo che studiando Foucault a partire dai corsi del ’77-’78 e leggendo i suoi scritti e le sue lezioni quando, dopo il 1984, c’è stato possibile e facendolo nostro non solo come filosofo ma come militante (i corsi al Collège de France hanno tonalità siffatte che permettono anche questa lettura) – potremo definire una base che vada oltre le eventuali superficiali convergenze fra il pensiero marxiano e quello foucaultiano su governamentalità, biopolitica e soggetto e permetta piuttosto di consolidare per entrambi il comune innesto in un’ontologia del presente.
Negli anni che ci interessano, Foucault avanza nell’articolazione di politica e di etica, definendo un “rapporto a sé” che è – contro ogni operazione individualizzante ed ogni ripresa del soggetto cartesiano – costituzione collettiva del soggetto e sua immersione nel processo storico. Ne viene una “destituzione” del soggetto, che si presenta come scavo del Noi – del rapporto Io/Noi – non solo come divenire ma come pratica della molteplicità. Il Noi è una moltitudine e l’Io vi è definito nella relazione all’altro. Quando analizziamo “la cura di sé” – su cui tanto si sofferma Foucault – avvertiamo che essa non è riducibile a pratica individuale e tantomeno – ripeto l’approccio di Judith Revel – “come una risposta individuale ad un potere che tende a costruire e a plasmare secondo le sue necessità la figura dell’individuo. Per dirlo in modo brutale e schematico, il sé greco non è l’io cartesiano e a fortiori non è l’individuo costruito dal liberalismo economico e politico di cui Foucault descrive la nascita nel ’78 – è piuttosto quella singolarità che Deleuze aveva definito”.
L’etica si propone su questo incrocio dell’essere e del fare. Ne segue il decentramento nel processo di soggettivazione che è tutto politico. È qui che i cinici trionfano e che la parrêsia si chiarisce non semplicemente come volontà (di dire il vero) ma come terreno di verità. Ma per affermare questo occorre insistere, non solo sulla coppia potere-resistenza che introduce una disimmetria tra i due termini – pur non pensabili l’uno senza l’altro – ma soprattutto sul carattere ontologico di questa differenza. Esso è rivelato dalla intransitività della libertà, elemento incondizionato pur quando sia sottoposto ad una relazione di potere. È esattamente quello che avviene con il lavoro vivo, potenza intransitiva nel rapporto di capitale.
La verità è costruita su un terreno poietico che produce essere nuovo. Le lotte di liberazione, ad esempio, sviluppano una pratica intransitiva della libertà, di una libertà che crea verità. Nel dibattito con Chomsky, quando la questione è portata sul desiderio di verità del proletariato, Foucault risponde: “je vous répondrai dans les termes de Spinoza. Je vous dirai que le prolétariat ne fait pas la guerre à la classe dirigeante parce qu’il considère que cette guerre est juste. Le prolétariat fait la guerre à la classe dirigeante parce que, pour la première fois dans l’histoire, il veut prendre le pouvoir. Et parce qu’il veut renverser le pouvoir de la classe dirigeante, il considère que cette guerre est juste”.
Infine, è chiaro che lo svilupparsi di tali processi di soggettivazione conduce a una riformulazione continua della grammatica (e delle pratiche) del potere. Se l’archeologia riconosce la differenza esistente fra ieri e oggi e la geneaologia sperimenta la differenza possibile fra domani e l’attualità – tutto ciò non lo si può fare se non attraverso un’indagine accurata sul presente, attraverso “un’ontologia critica di noi stessi”. Ed è attraverso questa ontologia critica di noi stessi piantata nel presente che noi abbiamo la possibilità, meglio, la necessità di mettere in crisi le categorie del moderno.
Molti esempi possono a questo scopo esser fatti, ma quelli che soprattutto sembrano fondamentali sono le problematiche che riguardano la nuova qualità del “lavoro vivo” e le nuove dimensioni della sua capacità produttiva; in secondo luogo, l’esaurirsi della dimensione del “privato” e del “pubblico” e l’emergenza di quel terreno “comune” che il rapporto Io/Noi, la produzione dell’Io nell’opera del Noi, determina.
Ora, l’importante di questa sequenza della storia, dell’etica e del fare politico è di costituire la proiezione, meglio, il dispositivo di un’ontologia aperta, di una vera e propria produzione di essere. È forse curioso ma non meno rilevante, ricordare questa posizione foucaultiana, sviluppata in un’epoca nella quale le ultime risultanze dell’esistenzialismo sartriano si erano imposte anche nell’ambito della sinistra rivoluzionaria. Ora, contro Sartre, in Foucault non c’è libertà del soggetto e necessità del fatto ma determinazione necessaria del contesto ontologico e sua apertura, libertà dell’agire e del fare etici.
4. Nel post-moderno, dopo Heidegger, l’ontologia non si definisce più come luogo del fondamento del soggetto, ma come un agencement linguistico, pratico e cooperativo, come tessuto della praxis: insomma è una ontologia dell’essere presente che ha spezzato la continuità della filosofia trascendentale, così come era venuta fissandosi a partire da Kant. Questa ontologia si strappa letteralmente dall’ontologia della modernità e dalla sua radice cartesiana, dalla centralità del soggetto e si impianta sulla nuova materialità dei “modi di vita”.
È qui abbattuto lo schermo epistemologico come ponte necessario verso la realtà. È Heidegger che procede su questo terreno, ma è anche Heidegger che paradossalmente lo rende impraticabile quando l’operare tecnico, che ora costituisce il mondo, si scontra con l’opera stessa. “La minaccia che pesa sull’uomo non proviene in primo luogo dalle macchine e dagli apparecchi della tecnica la cui azione può eventualmente essere mortale. La vera minaccia ha già toccato l’uomo nel suo essere. Il regno del Ge-stell minaccia l’eventualità che all’uomo possa essere rifiutato di tornare a uno svelamento più originale e di intendere così l’appello di una verità più iniziale”.
In Heidegger, dove l’essere non è produttivo, la tecnica affoga dunque la produzione in un destino inumano che introduce nella genesi della nuova ontologia un segno di perversione. La tecnica ci restituisce un mondo devastato, waste land: qui inevitabilmente riappaiono allora i fantasmi del soggetto, ben rappresentati nell’esistenzialismo di Heidegger.
Fra Nietzsche e Foucault sembra invece definirsi un’altra via. Essi assumono infatti l’essere del mondo per quel che esso è, lo scavano per conoscere ciò che esso è divenuto, per manipolare i detriti del passato, la compattezza del presente, l’avventura di ciò che sta davanti – colto nella sua realtà materiale e aperto nella sua temporalità. Per loro vale una spinta a riempire di storia l’ontologia, a stabilire relazioni linguistiche e dispositivi performativi, ricostruzioni genealogiche e volontà di verità, in modo che producano – interagendo – nuovo essere. Essi tendono ogni rapporto su macchine costitutive di mondo. L’epistemologia trascendentale è accantonata – essa non può costituire una garanzia di conoscenza per quell’ontologia del presente dentro la quale si produce la nostra vita.
In opposizione a Heidegger, dentro la nuova ontologia si produce quindi una decisiva biforcazione che apre alla pulsazione comune della vita. La produzione dell’essere non si dà né nel profondo né nel trascendentale ma si organizza nella presenza, nell’attualità, nella cura della vita. Parlo di “pulsazione” ma non ci siano ambiguità: niente di vitalista qui, noi siamo nella vita sociale e politica, non in una vita naturalizzata o biologizzata. La vita è sempre sociale e politica.
In Foucault è espresso, nella maniera più alta, questo essere immersi in una nuova ontologia del presente. Un essere comune: dove la dipendenza reciproca e multilaterale delle singolarità costruisce l’unico terreno sul quale sia possibile porre l’interrogativo conoscitivo e cercare la verità. I libri di Foucault, fin dall’inizio – ci ricorda Macherey – si collocano “au début de la période des grandes querelles qui ont marqué un complet renouvèlement des manières de penser et d’écrire héritées de l’immédiat après-guerre – avec la remise en cause simultanée du réalisme narratif, des philosophies du sujet, des représentations continuistes du progrès historique de la rationalité dialectique”. Liberarsi di quella cultura significa sbarazzarsi del soggetto sovrano e del concetto di coscienza – e con essi di ogni teleologia storica. Significa concepire l’ontologia come tessuto e prodotto della praxis collettiva.
Alla metà degli anni ’70, leggendo quanto Foucault aveva a quel momento prodotto, percepivo una impasse e mi chiedevo se essa non dovesse esser superata, oltre il culto strutturalista dell’oggetto e la fascinazione spiritualista del soggetto, da una pulsione alla soggettivazione, alla costruzione ontologica de l’a-venire. Ciò è avvenuto a partire dalla fine dei ’70. In Marx siamo di fronte ad una medesima forma di radicamento ontologico. Un radicamento nella/della presenza storica ed il suo ricostituirsi continuo. Manca una qualsiasi metafisica del soggetto. Il tessuto ontologico è il medesimo di quello fin qui segnato come “nuova ontologia”.
Assumere questa immediatezza ontologica non significa non tenere in conto la diversità dei periodi storici e conseguentemente delle “forme di vita” alle quali la riflessione si applica, per esempio in Marx e Foucault, ma semplicemente essere in grado di confrontarle su una base omogenea. Si tratta dunque di procedere su quei quattro punti che all’inizio di questo intervento avevamo definito e che io ricorderò qui: radicale storicizzazione della critica dell’economia politica; riconoscimento della lotta di classe come motore dello sviluppo capitalistico; soggettivazione nelle lotte della forza-lavoro, del lavoro vivo e adeguazione dei corpi produttivi alla mutazione dei rapporti di produzione; e, infine, definizione di una soggettivazione aperta al comune.
5. Spesso, in ambito francese, e a rovescio di quanto fin qui detto, si è tentato di avanzare su questo terreno sviluppando l’idea di una de-soggettivazione del discorso ontologico, e qui si è utilizzata la mediazione del pensiero di Althusser. È in effetti con grande radicalità che questa linea fu da lui proposta. Ora, è fuori dubbio che Althusser abbia affondato la critica su questo terreno:
“l’individu est interpellé en sujet (libre) pour qu’il se soumette librement aux ordres du Sujet, donc pour qu’il accepte (librement) son assujettissement, donc pour qu’il “accomplisse tout seul” les gestes et actes de son assujettissement. Il n’est de sujets que par et pour leur assujettissement”. Ne siamo ben consapevoli. Resta il fatto, tuttavia, che in questo processo, a furia di scardinare la soggettività, di tagliare l’albero di ogni spiritualismo possibile, Althusser abbia paradossalmente finito per tagliare il ramo sul quale egli stesso era seduto.
Balibar così corregge la cosa: “c’est (seulement) dans le procès sans sujet en tant que procès historique que la “constitution du sujet” peut avoir un sens”. La critica marxista del soggetto non può essere infatti tradotta in una figura non qualificata o indeterminata dell’anti-umanesimo. La storicità, la potenza che da essa si esprime, va recuperata. Forse nell’ontologia del presente risorge un umanesimo che si impone dopo la “morte dell’uomo”.
L’approccio foucaltiano ci ha quindi permesso non solo di cogliere ma di insistere sulla soggettivazione della lotta di classe come agente del processo storico. L’analisi di tale soggettivazione andrà naturalmente sempre rinnovata e confrontata alle determinazioni trasformative che i concetti subiscono nel processo storico. Tutto ciò, nell’ambito della sollecitazione foucaultiana – fuori da ogni dialettica e teleologia – ad assumere la soggettivazione storica come dispositivo non causale né creativo, tuttavia determinante. Alla maniera di Machiavelli: un materialismo storico per noi.
- Quando Marx definisce, ne Il Capitale, il passaggio dall’estrazione del plus-valore assoluto a quella del plus-valore relativo, correlando questo passaggio alle lotte operaie per la riduzione della giornata lavorativa – qui la dimensione storica della lotta, la specifica soggettivazione di classe diviene essenziale, nell’evento, per definire la trasformazione ontologica della struttura di valorizzazione capitalistica. Nonché la trasformazione del rapporto fra composizione tecnica e politica – intendiamo l’innovazione – della soggettività operaia. Insomma la lotta rende possibile l’evento e la trasformazione ontologica stessa.
- Quando Marx passa dall’analisi della “sussunzione formale” a quella della “sussunzione reale” del lavoro sotto il capitale – si tratta innanzitutto di un’ipotesi sullo sviluppo storico del modo di produzione capitalistico. Ora, Marx trae dalla descrizione di questo passaggio (che investe il processo del plus-valore e la sua trasformazione in profitto) varie possibili figure dell’estrazione del plus-valore. Su questa base, storicamente fondata, introduce l’analisi di un continuo configurarsi delle categorie dello sfruttamento in diverse epoche dello sviluppo capitalistico.
In questo quadro, ad esempio, può essere sottoposta a critica lo stesso concetto di classe operaia, che si trasforma e si consolida in figure diverse nel passaggio dalla “manifattura” alla “grande industria” – ed ora dal capitalismo industriale nella sua figura fordista – più o meno socializzata – al capitalismo finanziario. Il concetto di “moltitudine” può qui risultare adeguato a descrivere le attuali determinazioni del “lavoro vivo” in senso “cognitivo”, singolare, plurale e cooperativo. Quindi non a eliminare il concetto di classe operaia ma a ridefinirlo.
Sono le caratteristiche nuove della soggettivazione proletaria – resistente e/o attiva come forza produttiva (singolarizzata e cognitiva) – che permettono di ricollocare la lotta di classe al centro dello sviluppo capitalistico, come suo motore. Anche della sua eventuale crisi finale. E smettiamola ogni volta che qualcuno parla di eventuale fine del capitalismo di accusarlo di teleologia storicista … Sono al contrario queste analogie che ci permettono di rilanciare il significato della “lotta di classe” come Begriff des Politischen.
Attorno a questo tema è oggi possibile cogliere la caratteristica “eccedenza” del lavoro-vivo cognitivo e di approfondire l’analisi della sua produttività biopolitica. Quella figura di capitale e quella figura di potere che sono sempre interattive nel rapporto di forza che le costituisce, sono anche interattive nel rapporto che presiede ai processi di soggettivazione. Dobbiamo forse qui riprendere l’esperienza Simondon, non semplicemente utilizzandola e sviluppandola in termini di inter-soggettività e trans-individualizzazione ma in termini (guattariani e deleuziani) di trasformazione macchinica delle corporeità e della soggettività.
Se in Deleuze talora manca – pur in questa prospettiva macchinica – l’elemento antagonista della soggettivazione, quest’ultimo può ben essere recuperato se si insistite sulle intuizioni di Foucault. Come c’è lotta di classe che attraversa la composizione organica di capitale, così c’è – e dovrà sempre più essere assunto in maniera centrale – un elemento macchinico – mosso dalla lotta di classe – che appartiene alla composizione tecnica della forza-lavoro antagonista. Dopo Foucault questo sviluppo del discorso marxiano diviene possibile.
Nel rapporto di classe (studiato dopo Foucault), la dimensione ontologica non è uno sfondo ma una macchina produttiva. L’operare comune, l’egemonia produttiva del comune derivano non solo dalla trasformazione del lavoro in macchina cognitiva ma soprattutto dalla trasformazione antropologica che gli sottostà, dalle condotte da cui è nutrita, dalla nuova potenza tecnologica. Se affondano nell’antichità classica, le foucaultiane tecnologie di sé esondano in una nuova antropologia che non ha nessuna caratteristica naturalistica, identitaria – che tuttavia configura l’uomo dopo la “morte dell’uomo”.
L’opera foucaultiana era cominciata dall’analisi dell’“accumulazione degli uomini” che andava assieme all’accumulazione originaria di capitale – ora si tratta di approfondire, con la composizione tecnica del lavoro, la trasformazione dei corpi produttivi, dei modi di vita. Affermando definitivamente che i “modi di vita” divengono “mezzi di produzione”.
Vedremo più avanti se e come queste importanti differenze possano essere ricollocate dentro una comune prospettiva. Tale è evidentemente la mia ipotesi. Ma per il momento soffermiamoci su queste differenza.
Seconda differenza. In Marx, nel capitale si riassume il dominio, le dinamiche storiche dello sviluppo sociale si susseguono sul ritmo delle differenti “sussunzioni”, in una univoca prospettiva di “capitalizzazione” – quando non si voglia dire di “statalizzazione – del sociale. In Foucault, il biopotere si decentra, la sua diffusione avviene per germinazioni diverse, le articolazioni del potere si singolarizzano. Siamo a fronte di una “socializzazione del politico”.
Terza differenza. In Marx, il comunismo si organizza attraverso la dittatura del proletariato, che sola può costruire la transizione dalla società capitalista ad una società senza classi. In Foucault, il regime politico della liberazione si organizza nella soggettivazione, si singolarizza come libertà, pone nella produzione in maniera illimitata la costruzione di felicità comune. Possono essere corrette o riavvicinate queste indubbie differenze? Le divisioni concettuali che, pur sulla base di una medesima linea ontologica, son date possono esser tolte? Possono, probabilmente, esser rese meno importati di quanto sembrino.
Per esempio, alla prima differenza – la concezione organica dello Stato e del comando in Marx è fortemente attenuata, sul livello politico, dall’analisi storica dei comportamenti delle classi sociali, dal dispositivo interpretativo della “guerra di classe” e dei suoi effetti transitori e multipli; e poi dalle ipotesi (e dalle critiche) “comunarde” sviluppate nei suoi diversi scritti storici.
È comunque soprattutto sul terreno della critica dell’economia politica che quella concezione è profondamente modificata quando dall’analisi dei processi produttivi e riproduttivi – in figure fortemente centralizzate e astratte – Marx passa all’analisi della circolazione sociale delle merci, riconducendo i processi produttivi ai processi di formazione del valore; poi ri-scendendo verso l’analisi del salario e di conseguenza alla descrizione delle classi sociali e dei modi di vita. Il moltiplicarsi e il diffondersi dei meccanismi di potere disegnano allora larghi spazi – quando la società diventa fabbrica, i processi di potere si moltiplicano, divengono differenti, e su queste differenze si mettono letteralmente in pulsazione.
Alla terza differenza – quanto al comunismo marxiano, alla dittatura del proletariato e, di contro, al suo rovesciamento ontologico nella teoria della soggettivazione foucaultiana – si può forse qui stabilire una qualche simiglianza, avendo presenti le pagine sul comunismo, il General Intellect e l’“individuo sociale” nei Grundrisse. Questa simiglianza diventerà evidente nelle Lezioni foucaultiane a partire dal ’78, e probabilmente risulta il frutto di discussioni avvenute con amici, colleghi e collaboratori nei circoli foucaltiani dell’epoca e comunque nella registrazione di una storiografia di matrice marxista – penso in particolare al lavoro di E. P. Thompson.
Negli anni che ci interessano, Foucault avanza nell’articolazione di politica e di etica, definendo un “rapporto a sé” che è – contro ogni operazione individualizzante ed ogni ripresa del soggetto cartesiano – costituzione collettiva del soggetto e sua immersione nel processo storico. Ne viene una “destituzione” del soggetto, che si presenta come scavo del Noi – del rapporto Io/Noi – non solo come divenire ma come pratica della molteplicità. Il Noi è una moltitudine e l’Io vi è definito nella relazione all’altro. Quando analizziamo “la cura di sé” – su cui tanto si sofferma Foucault – avvertiamo che essa non è riducibile a pratica individuale e tantomeno – ripeto l’approccio di Judith Revel – “come una risposta individuale ad un potere che tende a costruire e a plasmare secondo le sue necessità la figura dell’individuo. Per dirlo in modo brutale e schematico, il sé greco non è l’io cartesiano e a fortiori non è l’individuo costruito dal liberalismo economico e politico di cui Foucault descrive la nascita nel ’78 – è piuttosto quella singolarità che Deleuze aveva definito”.
L’etica si propone su questo incrocio dell’essere e del fare. Ne segue il decentramento nel processo di soggettivazione che è tutto politico. È qui che i cinici trionfano e che la parrêsia si chiarisce non semplicemente come volontà (di dire il vero) ma come terreno di verità. Ma per affermare questo occorre insistere, non solo sulla coppia potere-resistenza che introduce una disimmetria tra i due termini – pur non pensabili l’uno senza l’altro – ma soprattutto sul carattere ontologico di questa differenza. Esso è rivelato dalla intransitività della libertà, elemento incondizionato pur quando sia sottoposto ad una relazione di potere. È esattamente quello che avviene con il lavoro vivo, potenza intransitiva nel rapporto di capitale.
La verità è costruita su un terreno poietico che produce essere nuovo. Le lotte di liberazione, ad esempio, sviluppano una pratica intransitiva della libertà, di una libertà che crea verità. Nel dibattito con Chomsky, quando la questione è portata sul desiderio di verità del proletariato, Foucault risponde: “je vous répondrai dans les termes de Spinoza. Je vous dirai que le prolétariat ne fait pas la guerre à la classe dirigeante parce qu’il considère que cette guerre est juste. Le prolétariat fait la guerre à la classe dirigeante parce que, pour la première fois dans l’histoire, il veut prendre le pouvoir. Et parce qu’il veut renverser le pouvoir de la classe dirigeante, il considère que cette guerre est juste”.
Infine, è chiaro che lo svilupparsi di tali processi di soggettivazione conduce a una riformulazione continua della grammatica (e delle pratiche) del potere. Se l’archeologia riconosce la differenza esistente fra ieri e oggi e la geneaologia sperimenta la differenza possibile fra domani e l’attualità – tutto ciò non lo si può fare se non attraverso un’indagine accurata sul presente, attraverso “un’ontologia critica di noi stessi”. Ed è attraverso questa ontologia critica di noi stessi piantata nel presente che noi abbiamo la possibilità, meglio, la necessità di mettere in crisi le categorie del moderno.
Molti esempi possono a questo scopo esser fatti, ma quelli che soprattutto sembrano fondamentali sono le problematiche che riguardano la nuova qualità del “lavoro vivo” e le nuove dimensioni della sua capacità produttiva; in secondo luogo, l’esaurirsi della dimensione del “privato” e del “pubblico” e l’emergenza di quel terreno “comune” che il rapporto Io/Noi, la produzione dell’Io nell’opera del Noi, determina.
È qui abbattuto lo schermo epistemologico come ponte necessario verso la realtà. È Heidegger che procede su questo terreno, ma è anche Heidegger che paradossalmente lo rende impraticabile quando l’operare tecnico, che ora costituisce il mondo, si scontra con l’opera stessa. “La minaccia che pesa sull’uomo non proviene in primo luogo dalle macchine e dagli apparecchi della tecnica la cui azione può eventualmente essere mortale. La vera minaccia ha già toccato l’uomo nel suo essere. Il regno del Ge-stell minaccia l’eventualità che all’uomo possa essere rifiutato di tornare a uno svelamento più originale e di intendere così l’appello di una verità più iniziale”.
In Heidegger, dove l’essere non è produttivo, la tecnica affoga dunque la produzione in un destino inumano che introduce nella genesi della nuova ontologia un segno di perversione. La tecnica ci restituisce un mondo devastato, waste land: qui inevitabilmente riappaiono allora i fantasmi del soggetto, ben rappresentati nell’esistenzialismo di Heidegger.
In Foucault è espresso, nella maniera più alta, questo essere immersi in una nuova ontologia del presente. Un essere comune: dove la dipendenza reciproca e multilaterale delle singolarità costruisce l’unico terreno sul quale sia possibile porre l’interrogativo conoscitivo e cercare la verità. I libri di Foucault, fin dall’inizio – ci ricorda Macherey – si collocano “au début de la période des grandes querelles qui ont marqué un complet renouvèlement des manières de penser et d’écrire héritées de l’immédiat après-guerre – avec la remise en cause simultanée du réalisme narratif, des philosophies du sujet, des représentations continuistes du progrès historique de la rationalité dialectique”. Liberarsi di quella cultura significa sbarazzarsi del soggetto sovrano e del concetto di coscienza – e con essi di ogni teleologia storica. Significa concepire l’ontologia come tessuto e prodotto della praxis collettiva.
Alla metà degli anni ’70, leggendo quanto Foucault aveva a quel momento prodotto, percepivo una impasse e mi chiedevo se essa non dovesse esser superata, oltre il culto strutturalista dell’oggetto e la fascinazione spiritualista del soggetto, da una pulsione alla soggettivazione, alla costruzione ontologica de l’a-venire. Ciò è avvenuto a partire dalla fine dei ’70. In Marx siamo di fronte ad una medesima forma di radicamento ontologico. Un radicamento nella/della presenza storica ed il suo ricostituirsi continuo. Manca una qualsiasi metafisica del soggetto. Il tessuto ontologico è il medesimo di quello fin qui segnato come “nuova ontologia”.
Assumere questa immediatezza ontologica non significa non tenere in conto la diversità dei periodi storici e conseguentemente delle “forme di vita” alle quali la riflessione si applica, per esempio in Marx e Foucault, ma semplicemente essere in grado di confrontarle su una base omogenea. Si tratta dunque di procedere su quei quattro punti che all’inizio di questo intervento avevamo definito e che io ricorderò qui: radicale storicizzazione della critica dell’economia politica; riconoscimento della lotta di classe come motore dello sviluppo capitalistico; soggettivazione nelle lotte della forza-lavoro, del lavoro vivo e adeguazione dei corpi produttivi alla mutazione dei rapporti di produzione; e, infine, definizione di una soggettivazione aperta al comune.
“l’individu est interpellé en sujet (libre) pour qu’il se soumette librement aux ordres du Sujet, donc pour qu’il accepte (librement) son assujettissement, donc pour qu’il “accomplisse tout seul” les gestes et actes de son assujettissement. Il n’est de sujets que par et pour leur assujettissement”. Ne siamo ben consapevoli. Resta il fatto, tuttavia, che in questo processo, a furia di scardinare la soggettività, di tagliare l’albero di ogni spiritualismo possibile, Althusser abbia paradossalmente finito per tagliare il ramo sul quale egli stesso era seduto.
Balibar così corregge la cosa: “c’est (seulement) dans le procès sans sujet en tant que procès historique que la “constitution du sujet” peut avoir un sens”. La critica marxista del soggetto non può essere infatti tradotta in una figura non qualificata o indeterminata dell’anti-umanesimo. La storicità, la potenza che da essa si esprime, va recuperata. Forse nell’ontologia del presente risorge un umanesimo che si impone dopo la “morte dell’uomo”.
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