Paolo B. Vernaglione:
Michel Foucault. La critica come eredità
@ Alfabeta2, 7 dicembre 2014
Se c’è un concetto di cui oggi si può fare l’archeologia, questo è quello di “biopolitica”, che indica genericamente la presa sulla vita che il governo neoliberale del mondo ha imposto, a partire almeno dagli scorsi anni Ottanta. In questi anni, in cui la globalizzazione capitalista dell’economia ha ceduto, nella crisi sistemica della finanza neoliberale, la “biopolitica” è stata declinata dai movimenti sociali oscillando tra i due significati del concetto: come analitica dei poteri in cui frammentazione e dislocazione della sovranità statale si sarebbero concretizzate nel regime governamentale; come cartografia delle possibilità di contrasto al neoliberismo nell’impiego integrale di quella che un tempo si chiamava “sfera intima” o “privata”, nell’opera paziente e minuziosa di esodo dalla società del lavoro e di rifiuto della delega politica. È di questa archeologia che l’11 dicembre si discuterà a Bologna nella giornata di studi dedicata a Foucault in Italia.
Le quattro tavole rotonde, “Testimonianze e ricezioni”, “La critica e il discorso filosofico”, “La governamentalità e il diritto”, “Foucault e i marxismi”, sarranno dunque occasione per porre la questione che dovrebbe attraversare con urgenza il pensiero critico, in vista della sua riattivazione: che cosa si è perso e che cosa si è guadagnato di Foucault, intorno a Foucault, ad opera di Foucault? E cosa si può tentare oggi per realizzare spazi permanenti di libertà? Qui anticipiamo un estratto della relazione di Paolo B. Vernaglione.
Per rintracciare la funzione della critica nel pensiero di Michel Foucault bisogna tentarne la ricerca interrogando il presente. Ponendo al nostro tempo la questione della sua ontologia, tentiamo di invertire il soggetto che pone la domanda con l’oggetto che dovrebbe rispondere. Questo perchè noi, confitti come siamo in questo presente, non possiamo rispondere alle sue sollecitazioni intorno all’esistenza, o ai punti di resistenza, o alle linee di diserzione della critica. Per farlo dovremmo abitare un’altro tempo, produrre un’impossibile distanza…
E la domanda sulla realtà della critica ai giorni nostri non può attendere una risposta espressa solo nel linguaggio verbale, o nella scrittura di un’enunciazione teorica, ma, prima che nelle forme della razionalità linguistica, nella dimensione non discorsiva della sensibilità, nella percezione della “tonalità emotiva” di questi giorni, o, se vogliamo, al livello delle sintesi passive, laddove l’aria che si respira, gli odori che si annusano, le sensazioni provate trovano a fatica traduzione in parole. Dobbiamo insomma risalire genalogicamente la distinzione kantiana di sensibilità e intelletto… Ora, come Foucault ha mostrato, esiste una linea di continuità in cui si afferma la permanenza della critica, dalle contestazioni della pastorale cristiana in Wycliff e nel basso medioevo, alla Riforma protestante, all’Illuminismo e, nel XIX secolo, alla “sinistra” hegeliana.
I grandi episodi storici, religiosi e filosofici della critica vivono in una permanenza che ci porta a condensare il suo senso alla questione dell’eredità, cioè di un patrimonio che si trova in un certo rapporto con gli eventuali eredi, che è più o meno formalizzato da regole e vincoli di enunciazione e che è in qualche modo legittimato dai conflitti sociali, dalle rivolte, dalle rivoluzioni – ma anche dalle guerre, dalle stragi, dai genocidi. Dobbiamo però dire subito che per eredità Foucault non intende affatto un patrimonio costituìto nell’accumulo di conosenze e credenze e inserito in una tradizione, bensì, al contrario, l’insieme degli elementi di dispersione, gli insiemi eterogenei di saperi che risultano come emergenze in un determinato tempo e che possono essere restituìti al presente della conoscenza solo a determinate condizioni. Questo significato della critica, della prassi critica configura il pensiero critico in ciò che ha di storico.
Come Foucault scrive di sè stesso nell’ “autoritratto” per il Dictionnaire des philosopes del 1984 «… la sua opera opera potrebbe essere definita come Storica critica del pensiero. Con questa definizione non si deve intendere una storia delle idee che sarebbe, nello stesso tempo, un’analisi degli errori che possono essere rilevati a posteriori ; o neanche un deciframento dei misconoscimenti a cui sono legati e da cui potrebbe dipendere quello che pensiamo oggi… una storia critica del pensiero sarebbe un’analisi delle condizioni in cui si formano o vengono modificate certe relazioni tra il soggetto e l’oggetto, nella misura in cui queste ultime sono costitutive di un sapere possibile». Se ammettiamo questo, potremmo essere pronti a cogliere il senso forse più essenziale della critica: l’essere critici.
Siamo allora propensi a dire, misurando la distanza tra certe pratiche inerenti la cura di sé, l’insieme di tecnologie del sé, di téchne tou biou che Foucault ha illustrato nell’antichità greca e latina e nel cristianesimo, e le possibilità aperte nella modernità da un’ermenutica del soggetto, che non esiste comportamento critico al di fuori di una costellazione storica, di un tirocinio sociale, di un campo di esperienza che comprende anzitutto le sconfitte, in primo luogo le sconfitte storiche dei soggetti collettivi. Non esiste rivoluzione senza critica; ma la critica esiste nel fallimento delle rivoluzioni, nella débacle dei progetti di rivolta, nella sovversione di un ordine post-rivoluzionario…
Il momento della critica non è mai l’atto assoluto di un istante in cui esplode, bensì l’effetto generato dal misurare continuamente la distanza tra sé stessi e ciò che si è contribuito a rovesciare, tra ciò che si era prima della rivoluzione e ciò che si è adesso; con quali nuovi poteri si ha a che fare, quali relazioni discorsive si possono intrattenere, a quale tipo di attività si è costretti, quali intressi si possono coltivare…: in una parola, nell’esssere critici troviamo l’inattuale che Nietzsche attribuiva a sé stesso e ai “filosofi dell’avvenire”… Per questo motivo il luogo della critica, potremmo dire il reale della critica è il luogo archeologico di un sapere generale da cui possono provenire il pensiero critico, l’interpretazione delle scienze, la contestazione dei dispositivi di potere.
Il senso del concetto di critica viene implicitamente ascritto da Foucault ad un sapere antropologico di cui a partire dall’Antropologia pragmatica di Kant si può intravedere la parabola, conclusa alla fine del XIX secolo con lo sviluppo delle scienze umane. Infatti proprio perché la critica inerisce all’eredità di un sapere sull’uomo prima che all’impresa di cui essa è testimonianza; e proprio perchè è dislocata storicamente nel campo di tensione tra sapere e non sapere, possibilità e divenire, istinto e ragione, proprio per questo motivo l’uso della critica segna il limite delle possibilità di conoscere. E questa soglia, nella mobile contingenza dei rapporti tra saperi, poteri e soggetti, proviene da una fonte che è la replica dell’atto critico in cui si esprime l’atteggiamento verso il mondo; infine l’essere critico stesso per esistere ha bisogno di un ambito, che non è la conoscenza più o meno formalizzata nelle scienze e nelle discipline, bensì una volontà di sapere in cui registriamo pulsioni e volontà di verità, istinti e comprensione, tracce di infinito in possibilità finite e numerabili.
Fonte, ambito, limite sono dunque le condizioni di possibilità della critica che Foucault rievoca in maniera sintetica nella conferenza su Critica e Illuminismo… Queste stesse condizioni realizzano il condizionato del presente, che tralascia la critica come eredità nell’immediatezza di un atto antagonista che si pretende puro. In questo punto si apre un campo di problematizzazione, quello del concetto ormai abusato di “biopolitica”.
Una nuova interpretazione di Marx negli scorsi anni Sessanta smascherava l’intento revisionista dello storicismo, mettendo al centro del regime di produzione del capitalismo industriale i modi di soggettivazione e le potenze del general intellect che qualificano i rapporti sociali. Dunque la prassi critica nell’opera di Marx, in particolare nei Grundrisse, lungi dal tendere all’organicità e al sistema della critica dell’economia politica, fondava una tradizione eretica, che trovava conferma in Europa in un nuovo soggetto sociale non più rappresentato dai partiti comunisti e dai sindacati operai e formato da giovani immigrati, studenti e sottoproletari…
La storia critica dei rapporti di produzione contestava d’altra parte alla contemporanea Scuola di Francoforte, il paradigma della razionalizzazione quale causa e motore del capitalismo, come Foucault ricorda nel corso Nascita della biopolitica… Questo modello di storia critica presso i movimenti negli anni Settanta dello scorso ‘900 produce l’opzione della liberazione dal lavoro e non del lavoro, come nella tradizione sindacale. In questo senso e fino al punto limite che è oggi necessario problematizzare nell’analisi della ricezione politica di Foucault, il comunismo è costruzione di spazi di libertà all’interno della nuova ragione neoliberale del mondo (e sarebbe interessante indagare il rapporto tra libertà e piacere, ove le lotte per la soggettività tralasciando il piacere, hanno finora rivendicato il desiderio, come Foucault aveva affermato in una delle ultime interviste).
E mentre la ragione neoliberale si sostanzia nella presa “biopolitica” della soggettività, in ragione di tali ragioni l’interpretazione eretica di Marx trova il proprio limite nel punto teorico di maggior forza: nell’emergenza della soggettivazione quale motore dei conflitti sociali…Laddove infatti il capitalismo contemporaneo si destruttura in una molteplicità di pratiche di desoggettivazione, mantenere al centro dell’analisi del capitale la costituzione di un soggetto… risulta contraddittorio sia rispetto alle composizioni sociali attuali, sia rispetto alla loro evanescenza.
E se il capitale umano costituisce la principale configurazione sociale del prelievo capitalistico di risorse, la critica del capitalismo dovrebbe avere come oggetto il mutamento inerente la volontà individuale nel divenire capitale, piuttosto che l’esame delle differenze tra composizione tecnica e politica, differenza che suppone un soggetto già identificato in un profilo (precario, studente, donna, migrante), laddove di esso bisogna rilevare l’estrema scomposizione… Infine se la logica d’impresa in cui il capitale umano si struttura e si disloca non fa diffrenza tra lavoro vivo e lavoro morto, la critica dell’impresa può anzitutto considerare i modi in cui la prestazione lavorativa si rapprende nel capitale fisso e diviene lavoro morto, laddove un sistema automatico di macchine la fa rivivere come intelletto generale: non più macchina a vapore ma smartphone e tablet… Forme di vita, capitale umano, facoltà di linguaggio.
Una critica del capitalismo nell’epoca della generalizzazione dell’uso delle capacità e delle affezioni singolari potrebbe prodursi a partire da questa configurazione in cui anzitutto la soggettività è rimessa in questione, a cui non si tende ma che si denuncia; che non si organizza ma si deterritorializza; che è presa in un divenire altro dalle merci e dal lavoro. Da cui una politica delle forme di vita, spazi che sono eterotopie, luoghi del fuori in cui avviene la libertà; un divenire nella temperie oltreumana del gioco e dell’arte in cui solo possiamo farci liberi produttori.
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