Maurizio Lazzarato, sociologo e filosofo, residente a Parigi, si è occupato approfonditamente del movimento sociale più innovativo e duraturo che la Francia abbia prodotto nell’ultimo ventennio, ossia il movimento dei cosiddetti intermittents du spectacle, artisti, operai o tecnici, che lavorano nell’ambito del cinema, della televisione, della musica o del teatro. Lazzarato, con Antonella Corsani, ha pubblicato nel 2008 anche un libro, Intermittents et Précaires, che raccoglie i risultati di uno studio nato dalla collaborazione tra militanti del movimento e ricercatori universitari intorno alla figura ibrida del “lavoratore culturale”. Ci pare importante, oggi, ritracciare la storia di questa lotta e la riflessione sulla realtà che essa ha prodotto. Almeno da quando un movimento come TQ ha riunito per la prima volta in Italia autori, lavoratori dell’editoria e piccoli editori, per interrogarsi criticamente sul ruolo che la generazione dei trenta-quarantenni riesce a svolgere all’interno del mondo culturale, considerando sia le condizioni di lavoro sia i privilegi e le posizioni di dominio che vigono in esso.
Vorrei che presentassi lo statuto degli “intermittenti dello spettacolo” in Francia, raccontandoci anche le vicende del movimento che è nato a difesa di questa categoria di lavoratori.
La categoria di “intermittenti dello spettacolo” include dei lavoratori della televisione, del cinema, del teatro, ma anche i musicisti, che sono i più numerosi, i danzatori, chi lavora nel circo. Sono invece esclusi quelli che qui chiamano i plasticiens, pittori e scultori. A tutti gli “intermittenti” spetta un regime di indennità di disoccupazione particolare. Questo regime ha una lunga storia, ma si è concretizzato negli anni Sessanta e Settanta. Che esistesse quarant’anni fa un regime d’indennizzo particolare, dipendeva dal fatto che in epoca fordista questo tipo di attività era un’eccezione, non la regola. Lavorare un mese per preparare uno spettacolo teatrale, o per tre giorni, per realizzare uno spot pubblicitario, e rimanere in attesa, poi, di un altro impegno, non era la norma, nel fordismo. E quindi hanno costruito intorno a questa intermittenza – lavoro, disoccupazione, lavoro – un regime specifico che assicurasse la continuità del reddito dentro una discontinuità dell’impiego. Fino agli anni Ottanta, era molto vantaggioso. Con tre mesi di lavoro (507 ore di lavoro) potevi avere dodici mesi di sussidio di disoccupazione, adeguato al salario che avevi percepito. Inoltre, era un sistema flessibile, perché se ti capitava poi di lavorare due giorni, quelle ore lavorative venivano scalate dal sussidio.
Con gli anni Ottanta c’è stato un vero incremento, dato sopratutto dal governo socialista, con Jacques Lang come ministro della cultura. Queste attività sono diventate più importanti in ambito economico, con il crescere dell’industria culturale e la diffusione dei festival. Nonostante però aumentasse la popolazione in grado di godere di questo regime – dai ventimila iniziali ai centomila nel 2003 – almeno una metà di lavoratori restava comunque fuori, non riuscendo a varcare la soglia dei tre mesi di impiego continuativo.
Il movimento degli intermittenti ha avuto una continuità molto forte dagli anni Ottanta fino al 2003. È la corporazione che ha generato le forme di lotta più costanti e incisive. Durante la prima grande lotta, nel 1992, con l’appoggio del sindacato hanno occupato per un mese il teatro dell’Odeon (storico teatro, che si trova nel centro di Parigi).
Ma allora perché protestavano?
Protestavano perché glielo volevano cambiare, peggiorandolo. In Francia esiste fondamentalmente un regime generale di disoccupazione, e poi esistono dei regimi particolari, come quello degli intermittenti o dei lavoratori interinali o degli stagionali. Con l’avvento del neoliberismo, per prima cosa è stato colpito il regime generale della disoccupazione, utilizzando i soliti discorsi… “Questi bisogna farli lavorare di più”, ecc. E poi, poco alla volta, sono andati a toccare anche i regimi particolari. A un certo punto il MEDEF (equivalente della nostra Confindustria) ha mosso un attacco mirato al regime degli intermittenti. E da qui nasce la reazione del 1992, e anche la nascita dei “Coordinamenti”, ossia forme di organizzazione degli intermittenti al di fuori del sindacato.
Inizialmente erano legati al sindacato generale dei lavoratori, ossia alla CGT (l’equivalente della CGIL)?
Esatto, che aveva una sua sezione dedicata ai lavoratori della cultura. Ma nel ’92, per la prima volta, c’è la nascita di questi coordinamenti un po’ dappertutto, tranne che a Parigi. Soprattutto era importante quello di Lione, che aveva sviluppato una discussione importante al proprio interno. Avevano evidenziato due punti: 1) l’intermittenza non è più un’eccezione come nel fordismo, ma diventa una regola, perché sempre più professioni soffrono di questa discontinuità dell’impiego; 2) visto che l’intermittenza si sta diffondendo, e con essa la precarietà e l’impoverimento delle persone, bisognerebbe che il nostro regime fosse allargato a tutti quanti. Il precariato, infatti, si diffonde sul mercato del lavoro già nel 1992. E vent’anni fa loro avevano colto questo nodo importante, anticipando quello che il sindacato non riusciva a vedere…
Quindi questi coordinamenti sono diventati anche un laboratorio politico?
Sì, e questa discussione è andata avanti parecchio, incontrando però subito il blocco del sindacato. Quest’ultimo non ha recepito la novità del discorso. C’era unità sulla difesa del loro specifico regime, ma sul discorso politico generale la divergenza era netta.
C’è stata un’altra lotta importante nel ’97-98, e si arriva poi al 2003… Nel frattempo, era avvenuto un mutamento al vertice del sindacato padronale, fino ad allora controllato da dirigenti del settore metalmeccanico, ora sostituiti da dirigenti del settore finanziario, delle assicurazioni, ecc., i quali, rigidi sostenitori del neoliberismo, hanno detto: “Questo sistema bisogna toglierlo”. In effetti, un tale regime permetteva ancora di pensare in termini differenti la questione dell’intermittenza dell’impiego, rivendicando la possibilità di esercitare un lavoro flessibile che non fosse anche una condizione di precarietà e d’impoverimento economico. E questa volta, a Parigi, si è sviluppato un coordinamento molto importante. In questa occasione, gli intermittenti hanno bloccato il festival di Avignone, che è il festival teatrale più importante di Francia. Hanno annullato anche il festival di musica lirica di Aix-en-Provence, e altri festival minori. A Parigi hanno dapprima occupato il Teatro della Colline, e poi si sono spostati in un teatro comunale dedicato a Olympe de Gouges, l’eroina femminista delle rivoluzione francese. Lì hanno stabilito la loro base operativa e hanno aperto un dibattito politico, che si è concentrato intorno al nome da darsi. C’erano diverse tendenze, legate alle diverse anime politiche: i sindacalisti della CGT, i trozkisti, ecc. Il nome che si è imposto alla fine ha anche determinato la linea politica maggioritaria. Si sono battezzati: “Coordinamento degli intermittenti e dei precari de l’Île de France”. Tutta una corrente, costituita dagli artisti, rivendicava lo statuto specifico di “artista”, come quello determinante per definire il movimento. Altri, invece, mettevano l’accento sul termine più inclusivo e generale di “professionisti”. Erano soprattutto i lavoratori del settore televisivo e dell’immagine, che non si sentivano “artisti”. Ricordiamoci, infatti, che il movimento include i tecnici oltre che gli artisti, e il blocco dei festival è avvenuto soprattutto grazie alla mobilitazione dei tecnici, ossia alla parte propriamente “operaia” del movimento. Il dibattito, quindi, parte condizionato da questi elementi identitari: da un lato gli artisti, da un lato i tecnici, ossia genericamente i professionisti dello spettacolo. Quest’ultima corrente esprimeva poi le posizioni della sinistra classica, da quella comunista e trotzkista fino a quella socialista. La maggioranza all’interno del coordinamento, però, riprende la questione della precarietà, già sollevata nel ’92 dal coordinamento di Lione. (...)
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